L’estate del 2001 fu una lunga luna di miele per i romanisti, che fecero durare i festeggiamenti per il tricolore probabilmente ben oltre il dovuto, con l’arrivo di ‘fantantonio’ Cassano che trasformava una squadra fortissima in stellare. In realtà successivamente dalle dirette voci dei protagonisti, si è saputo che in quella Roma ci avrebbero dovuto giocare anche Buffon e Cannavaro, che poi hanno preso ahinoi altre strade, forse indirizzati da un sistema che esisteva, anche se chi ne faceva parte ovviamente negherà fino alla morte, anche con prove schiaccianti tra le mani. Accanto al ‘bistrattato’ Antonioli, giunse dopo una stagione da assoluto protagonista a difesa dei pali dell’Atalanta, Ivan Pelizzoli, che successivamente grazie a una coppia difensiva straordinaria riuscì a stabilire anche una delle strisce di imbattilità più lunghe della storia della serie A. A dirla tutta, non era tutto sto ‘fenomeno’, ma come tale fu pagato: 30 miliardi di lire, questa su per giù la cifra sborsata da Sensi per accaparrarsi l’estremo difensore bergamasco. Per queste ragioni, i giallorossi guidati da Fabio Capello si presentavano ai nastri di partenza della stagione 2001/2002, ancora come squadra da battere. Come nelle più classiche storie romaniste, ovviamente quella squadra stratosferica non vinse, anche se si regalò una pagina memorabile, seppur 'magra' e fine a se stessa considerando che a fine anno si perse lo scudo nella laguna veneziana, dove sotto di due gol portammo a casa un punticino con la doppietta di rigore realizzata da Montella. Sempre ostica la trasferta col battello, anche in tempi recentissimi (Okereke).

La sera del 10 marzo del 2002, chiamo Antonio per chiedergli di vedere il derby insieme - appuntamento che divenne ‘tradizione’ in quei primi anni duemila - e mi risponde di vederci a casa di Pasquale, un altro amico che aveva simpatia per la Lazio, in attesa di rivedere il Napoli in A. Giuseppe invece, padre del Pasquale, alla stessa maniera carente di ‘grande Napoli’, simpatizzava per i giallorossi, in quello che divenne un due contro due in quella indimenticabile serata. La Lazio di Zaccheroni scendeva in campo con: Peruzzi, Dino Baggio, Nesta, Mihajlovic, Couto, Pancaro, Fiore, Giannichedda, Stankovic, Crespo, Simone Inzaghi. La Roma di Fabio Capello rispondeva con: Antonioli, Zebina, Samuel, Panucci, Cafu, Emerson, Lima, Candela, Totti, Montella, Delvecchio. Inizia la partita e si capisce subito che per i biancocelesti sarà una giornata da ‘cronaca nera’: passano appena dodici minuti e Totti di tacco fa passare palla tra Fiore e Stankovic, sfera che arriva tra i piedi di Candela che di esterno destro lascia partire il cross su cui l’aeroplanino si avventa anticipando Nesta e batte Peruzzi portando la Roma sull’1-0. Al trentesimo un inarrestabile Totti parte palla al piede, percorre un corridoio centrale superando agevolmente Fiore, poi Giannichedda, infine Couto e giunto al limite dell’area lascia partire un destro in diagonale che trova la difficoltosa respinta del portiere...La palla resta lì, apparentemente nella disponibilità di Nesta, ma ancora una volta Vincenzino si fionda - ironia della sorte - come un rapace, anticipa di mancino e fa 2-0: è il delirio più assoluto, con Nesta totalmente in bambola e la partita che sempre già finita. Non lo è però, purtroppo per i laziali. Al minuto 37 calcio di punizione del capitano dall’out di destra, palla in mezzo e ancora una volta lui, uno dei giocatori più sottovalutati dell’era moderna, con il numero 9: Vincenzo Montella! Colpisce di testa e la gira nell’angolo più lontano per il 3-0 e la tripletta personale.

In 'casa Pasquale', l’atmosfera si fa cupa per i supporter dalle tinte ‘sbiadite’; un fiume in piena invece il signor Giuseppe, il quale vede Totti alla battuta e annuncia: “Rete!” Come a vedere dal tocco del ‘dieci’ la precisione chirurgica che avrebbe portato il pallone sulla ‘capoccia dorata’ del centravanti. Finisce la prima frazione di gioco, e Nesta - distrutto moralmente - chiede a Zaccheroni di restarsene negli spogliatoi: il tecnico solidale con il romano, acconsente. Il prologo della ripresa, racconta una Lazio che prova a tirare fuori l’orgoglio, offrendo dieci minuti di buon calcio, al punto da arrivare alla marcatura che poteva riaprire i giochi, con una fantastica conclusione dai trenta metri da parte di Stankovic, la quale si va a infilare nell’angolino alla sinistra di Antonioli. A quel punto, Capello ‘spaventato’ dalla possibilità che gli aquilotti rientrassero in partita, toglie Delvecchio e rinforza la mediana con l’ingresso di ‘anima candida’ Tommasi, giusto in tempo per servire sui piedi di Montella palla a limite dell’area: mezzo passo dello stesso verso il centro e botta mancina sotto la traversa. Quattro gol in un derby: la storia è fatta, il bomber di Pomigliano d’arco incide a fuoco il suo nome nella storia della stracittadina romana, nei secoli dei secoli Amen! Uno stato ‘funereo’ cala nel salotto, con la ‘sponda’ giallorossa talmente sazia che non ha più forza di esultare, Pasquale in totale ‘silenzio stampa’ e Antonio in un limbo tra sogno e realtà, ‘ammaccato’ com’era dalle quattro reti subite. Sarebbe bastato per rendere quella partita unica, ma non aveva ancora detto tutto, l’incubo laziale era vivo più che mai. Al minuto 72 infatti, l’aeroplanino non contento di quanto fatto, si veste da assist-man: prende palla dalla sinistra, si accentra, vede Totti e lo serve, questi - già autore di una prova superlativa - raccoglie l’invito del numero nove e conclude a rete con un pallonetto di rara bellezza. La palla si innalza verso vette mai toccate e spiove appena sotto la traversa, con il povero Peruzzi che non può fare altro che accompagnare con lo sguardo quel pallone su cui non sarebbe mai potuto arrivare.

L’apoteosi della goduria nella notte più splendente, con il ‘bimbo de oro’ che si fa uomo, dedicando alla donna che gli ha rubato il cuore e con cui condividerà un matrimonio lungo e tre bellissimi figli: “6 unica", così recitava la maglia ‘da festa’ che il capitano aveva preparato e che sperava di esibire alla sua amata, tra l’altro - scherzo del destino - di fede laziale. La partita volge al termine, e Antonio tramortito dal risultato continua nel suo stato catartico: tra veglia e sonno assiste ai replay in ‘loop’ trasmessi da ‘Stream’ - emittente che trasmetteva le partite in quel periodo - e non essendosi reso conto che la gara fosse finita, esclama  "Ma quant ca** e gol stamm pigliann?" (“Ma quanti gol stiamo subendo?”). Pasquale nel congedarci afferma: “A me Montella m’è semp piaciut” (ho sempre apprezzato Montella) e ancora: “ Ma ij tifo pu Napule…” (beh questo non ha bisogno di traduzione) quasi a volersi scrollare di dosso una fede laziale che è solo ipotetica, un’infatuazione di una sera più che l’amore di una vita. La stagione come detto, si concluse senza trofei (strano), con lo scudetto assegnato in quell’ultima giornata clamorosa: il celeberrimo cinque maggio in cui proprio la Lazio cancellò le velleità di vittoria dell’Inter, che cominciava la gara da prima in classifica per poi ritrovarsi dopo novanta minuti addirittura terza, scavalcati proprio dalla Roma - vittoriosa a Torino - e dalla Juve che superando l’udinese a domicilio, si cucì lo scudetto al petto. Con la fine del campionato arrivò il mondiale di Corea e Giappone, altra delusione cocente per l’Italia, eliminata agli ottavi dai padroni di casa per lo più da un atteggiamento arbitrale da 'ufficio indagini', con il ‘fischietto’ Byron Moreno celebre al mondo esclusivamente per lo scempio che mise in atto il 18 giugno del 2002, tra gol regolari annullati (Tommasi, sarebbe stato golden gol quindi fine della partita) ed espulsioni esilaranti (Totti), senza citare la quantità industriale di torti subiti già nel girone. Blatter ci voleva molto bene, ci amava! Fu soltanto l’inizio - per il sottoscritto - di un’annata incolore. Anche la ‘magica’ dopo i fasti del biennio precedente, visse una stagione in penombra, chiudendo la serie A 2002/03 all'ottavo posto. In realtà gli anni delle ‘medie’, non li ricordo con particolare affetto: ero un ragazzino piuttosto timido, non ero particolarmente ‘popolare’ detto all’americana maniera. Non che mi sia mai importato esserlo, intendiamoci: scrivevo poesie, tifavo Roma, non ho mai cercato i facili consensi, tutt’altro. 

Del 2003 il ricordo più vivido è il giorno che mi ha portato a scegliere il liceo scientifico come scuola 'futura'. Durante il terzo anno infatti, era prassi portare i ragazzi in giro per ‘l’orientamento’, ovvero si visitavano diversi istituti per farsi un’idea di cosa fare di se stessi, del proprio avvenire. Una scelta determinante, probabilmente troppo per avere lucidità nel farla se hai tredici anni. I ‘giri’ per vagliare scelte andavano avanti da un po’, e nella mia testa ero abbastanza certo che sarei andato in un istituto tecnico industriale: fare informatica era la mia ‘fissa’, mi ci vedevo a ‘smanettare’ con i ‘pc’, mi piaceva un sacco, tant’è vero che ho cominciato ad accendere/spegnere un computer - un pentium I - che avevo appena quattro anni e i ‘floppy disk’ erano ancora in voga. Quel giorno però cambiò tutto: orde di ragazze che vagavano per i corridoi del liceo, una in particolare me la ricordo come fosse oggi…Che te…Che prosperità!

Pippo, Felice…Non so voi, ma questa sarà la mia scuola!” Annuirono e concordano, legati dallo stesso pensiero da adolescente trasudante di ormoni impazziti. Che bello il liceo amici miei…Se potessi sarei ancora lì! Il primo anno fu di ‘ambientamento’: un pò come i calciatori giovani che hanno bisogno di quel tempo tecnico per capire meccanismi, tattiche, per poter incidere. I ‘meccanismi’ li capii in estate - lontani dalle mura dell’istituto - andando in vacanza 'studio' con 'Leone', la mia professoressa di inglese, la quale mi aggregò a un gruppo del quarto anno per portarmi con se a Malta, la mia prima tappa fuori dal suolo italico: un quattordicenne in mezzo a diciottenni, cosa mai potrebbe andare storto? Quindici giorni dopo signori miei, ero letteralmente più alto di dieci centimetri, avevo perso peso al punto di sembrare ‘secco’ come Di Maria, e con l’atteggiamento da ‘uomo che non deve chiedere mai’: un’altra persona, caratterialmente e fisicamente. Malta mi ha dato tantissimo. Come tutte le ‘prime’ volte, anche il primo viaggio all’estero non si dimentica, soprattutto se a quella prima volta, ne coincide anche un’altra. Del 2005 ho già raccontato l’ aneddoto della scommessa, quel che non ho detto è che lo considero il mio anno ‘da scemo’: diciamocela tutta, da adolescenti si è abbastanza stupidi, anche se al tempo stesso è il momento della vita in cui probabilmente il cervello è maggiormente disposto all’apprendimento. Quindi alcol a fiumi, si ‘marinava’ ogni tanto la scuola, si giocava ore e ore a calciobalilla da Giovanni… Insomma, tutto fuorché studiare, per la ‘gioia’ dei miei.

Un giorno Pippo si presenta a casa di Antonio con un dvd del film “The Doors” di Oliver Stone: signore e signori "la fine", "the End" citando il titolo di una delle più celebri canzoni della rockband statunitense. Un innamoramento istantaneo, una folgorazione: eravamo pazzi di Jim, anche se approfondendo, una personalità poi molto distante da quella dipinta dal regista, non a caso molto criticato dalla stessa band. Vedere quel film è stato come essere dinanzi a una rivelazione: era come se quelle due ore mi avessero detto: "Hey, sei giovane, hai idee, il mondo è tuo stro***, fai tutto quello che vuoi!" E allora giù di libri, interviste, poster, qualsiasi cosa parlasse del ‘re lucertola’ e dei Doors: mi feci crescere persino i capelli fino alle spalle pur di sentirmi vicino alla rockstar. Lessi le poesie raccolte in “Tempesta Elettrica”, scoprendo la vera anima dell'artista: una star internazionale quasi senza volerlo, non un cantante ma un poeta; era la sua poesia, la profondità che l'ha portato a scrivere decine di frasi segnanti quel che avrebbe voluto trasmettere - come ha fatto - realmente al mondo. Quella raccolta era tra gli innumerevoli libri letti da mia madre, probabilmente si 'danna' ancora che l'abbia scovato (magari no, qualche grattacapo gliel'ho dato però). Di lì a poco entrando in un negozio, vidi un poster in tela lungo due metri: dico due metri! Lo comprai immediatamente e finì subito in camera mia…Mia mamma ne fu ‘entusiasta’, occupava un'intera parete!  Nella mia follia adolescenziale, mi rivedevo in Jim Morrison: lessi che in un momento d’ira, aveva strappato tutti i suo scritti, cosa di cui si pentì successivamente; la stessa cosa avevo fatto io sul finire delle scuole medie. Pensai “Ca..o Jim, ti capisco, ovunque tu sia, in cielo o in una stanza esclusiva in cui entrano solo quelli del club dei 27” (jimi hendrix, Jim Morrison, janis joplin, amy Winehouse condividono la triste coincidenza di aver perso la vita a 27 anni. Janis Jim e Jimi a meno di un anno di distanza l’uno dagli altri).

Esistono il noto e l’ignoto, e in mezzo ci sono le porte.” Jim Morrison. Questa frase dava origine al nome del gruppo, ma in qualche modo spalancava anche le “porte” della mia adolescenza. Il desiderio di crescere, il sogno di girare il mondo, di scoprire cose nuove, di amare. La sensazione di poter fare ‘tutto’ da li a qualche anno, l’ossessiva ricerca della libertà perché ‘questo paese mi sta stretto’, la rabbia ingiustificata verso qualcuno, magari un professore o la famiglia che non ti ha ‘compreso’: l’infanzia era stata fantastica, ma se ognuno di noi conserva in un periodo dell’esistenza uno stato dell’anima, allora chiamatemi ‘adolescenza’. Vivevo il momento e ne ero innamorato allora come ora. Scrissi anche un libro - mai pubblicato - che chiamai ‘l’occhio dell’adolescente’: giusto per rendere l’idea di quanto fossi partecipe di quanto stessi vivendo. Un momento che è una costante altalena tra felicità e tristezza, una linea sottile che può porre le basi di un successo o di un disastro. In tutta l’esistenza facciamo scelte, ma quelle che fai da adolescente sono una ‘tagliola’ o un ‘trampolino’: un errore può segnarti il futuro, soprattutto se hai già ‘potere di firma’, perché a diciotto anni si è adolescenti così come a sedici, anche se ci si illude che non sia così. Chissà se anche Jim, travolto dal successo, sia rimasto ‘adolescente’ nonostante i ventisettenne anni, probabilmente non avendo avuto modo di ‘realizzare’ il tempo che scorre. Non lo sapremo mai, purtroppo. Don’t go over the line, You better keep on time, Or you’ll lose your mind, On your tightrope ride (Non superare il limite, Cerca di arrivare in orario, O perderai la testa, Nella tua camminata sulla fune). Così scrivevano i Doors in Tightrope Ride del 1972, un monito a Jim, un monito a loro stessi, il loro ‘fratello’ purtroppo, era già caduto dalla fune.

 

To be continued...