"La mia esistenza non ha avuto alcun senso. È come se tutta la mia vita sia stata una carriera nel basket."
("Pistol" Pete Maravich)

Eccoci giunti al terzo ed ultimo capitolo sulle vite dei grandi campioni che calcarono i parquet dell'NBA. Prima di scrivere queste tre storie, ero già consapevole dei numeri non elevatissimi che avrei accumulato in termine di visualizzazioni. "Damia', ma ora scrivi di NBA?" Vedete che i tre personaggi che ho scelto e trattato hanno avuto dei comportamenti che miravano ad un solo obiettivo: la felicità personale ed individuale. Ed io mi sono comportato come loro, divertendomi un mondo a narrarli. Sono stato fedele al motto inglese "just enjoy it". Almeno, spero che un certo numero di fan NBA imboscatosi nel nostro sito di calcio mi abbiano letto, oppure mi auguro (anche più della prima opzione!) che qualche ignorante in materia abbia concluso di leggere lo sciame di consonanti fino in fondo alla pagina, interessato. O se magari non v'è piaciuto per niente? Va bene, me ne farò una ragione. La storia di oggi incomincia in Pennsylvania, a 30 miglia da Pittsburgh.  

Si racconta che in ogni famiglia d'America si tenga una pistola in un qualche cassettone o cinturone. Abitudini di culture diverse, si potrebbe scrivere. Ma non è tutto qui, perchè forse fanno bene con le pistole. Sappiate che negli States sono frequenti gli avvistamenti di sagome curiose e spaventose, in molti sono convinti che debba esserci del maligno da sconfiggere. La gente giura d'aver visto in cielo non solo droni, stelle cadenti o navicelle spaziali con alieni a bordo.  

Avviene che in questi USA, già nel primo decennio del XX secolo, giungono innumerevoli famiglie sognanti dalla lontana Europa. Perchè l'America è la terra delle promesse, delle possibilità e del successo, oltre che dell'immancabile denaro. Questo è il caso non solo dei Corleone o dei Vronsky, mi riferivo ai Maravich io, una stirpe proveniente dalla Serbia che, dopo qualche spostamento in più rispetto agli amici dello stesso continente, e complici le difficoltà nel lasciare la loro "Srbija", si stabiliscono nel rinomato East dello Stato a stelle e strisce, precisamente ad Aliquippa. Se mai vorreste recarvi oggi in questa città da 11.700 abitanti circa, trovereste il Museo dell' Old Economy Village, o l'Hopewell Park come maggiori punti di interesse, ma io non vi consiglierei la permanenza nel paesino. Infatti il comune è finito più volte sui giornali negli ultimi mesi, tanto che la polizia ricerca il killer di Aliquippa. Trovatevi un albergo da un'altra parte. Dunque i Maravich scelgono Aliquippa, almeno lì trovano delle miniere dove lavorare. E nel frattempo, nasce sul suolo degli States l'americano Petar. Ovviamente, tutti i locali vedono il bimbo come un serbo, nessuno legge la carta d'identità. È Petar il serbo.  

E così il ragazzo cresce d'età, fino a quando agli albori dei fourties, coglie l'occasione (non degna d'esser definita tale) per integrarsi a pieno nell'ambiente americano: arruolarsi come Top Gun nella Seconda Guerra Mondiale. Perchè, quando un serbo combatte per l' America, secondo gli americani diviene degno d'essere chiamato americano. Fortunatamente l'avventura di Petar ha un epilogo fortunato, il Maravich torna ad Aliquippa sano e salvo, ed incontra una donna serba, vedova di un italiano deceduto nella Guerra. Una certa Jelena, che fa promettere a Petar di non pilotare più, troppo rischioso. Allora, piano B. E Petar decide di allenare i ragazzi di Aliquippa, dunque gli piace la pallacanestro e quello farà. E farà anche un figlio con Jelena, quasi lo stesso nome del papà: Peter Press, ma per tutti Pete. Pete Maravich.  
Ed è proprio Pete il protagonista di questa storia. Perchè il suo destino è già chiaro nell'età dell'infanzia. Se Mowgli nasce allevato dai lupi per diventare un cacciatore, se Commodo viene su con il dovere prossimo di divenire l' "imperator" dell'antica Roma, invece Pete Maravich mette centimetri con la consapevolezza di essere, in futuro, un grande campione con la palla a spicchi. Tra lui e lo "Spalding" di cuoio si consuma un amore viscerale. In Pete c'è una dedizione ed un fervore che mai s'erano visti nella famiglia Maravich, dove già tra zii e parenti in molti s'erano consumati le mani da aspiranti-cestisti. Ma il bambino è differente, poi ha un carattere che ricorda assai "un giovane Petar".  

"Vuoi diventare un grande giocatore di basket?" Pete fa: "Sì papà, sì. Io lo voglio. Lo voglio." Perchè, nella storia, il talento con cui Pete nasce va coltivato da papà Petar, il quale aveva notato con grande entusiasmo gli interessi intensi del figliolo, dunque si era subito deciso a plasmare il gioco del suo piccolo. Quel bambino scapigliato, che cresce, deve sudare per un costante esercizio destinato a renderlo più forte, qualche gradino più in alto nella "scala alimentare animale". Già a sei anni Pete si allena per 6 ore al giorno, sempre, dal lunedì alla domenica. Si parte con i fondamentali quali tiri dalla distanza e palleggi, che velocemente vengono promossi a palleggi tra le gambe (magari incrociate). Ma ben presto il gioco diventa assai differente dai soliti allenamenti altrui, e non solo per i lunghi tempi. Petar trova degli esercizi unici per stimolare il ball handling del suo ragazzo, uno in particolare è celebre: porta con sè il ragazzo dentro la propria macchina e gli chiede di palleggiare, rallentando oppure accelerando il ritmo, a seconda della velocità intrapresa dall'automobile in corsa. Poi Petar deve imparare a far rimbalzare graziosamente il pallone anche sopra delle superfici strette o assai sottili, oppure di tirare da distanze notevoli: ad esempio un tiro dal viale che arrivasse a centrare il bersaglio nel sottoscala. E la mamma non faceva problemi ad udire un pallone rotolare continuamente. È Isiah Thomas che dice che "i veri grandi talenti riescono a fare musica con il rumore di un pallone da basket che rotola"?  

Qualcuno in città pare incominciare a notarlo, ragazzi ed adulti si fanno avanti per vedere quel palleggiatore dai modi così artistici. Fatto srambo per un ragazzo di stirpe europea, che così, con qualche scommessa vinta, colleziona anche qualche dollaro.  
Non è che il piccolo Maravich fosse timido, piuttosto era definibile come un ragazzo molto solare, magari una compagnia molto piacevole con un animo decisamente timido, decisamente un angioletto, schivo e forse qualche volta di troppo. Dettaglio lapalissiano, perché quegli amici trovano spesso Pete ad esercitarsi, solo in palestra, a tirare. A volte è mezzanotte e Pete tira, tira, tira. Si vede che non prova interesse per ciò che gli si estende intorno, lui tira ed è concentrato unicamente sul ferro da colpire. "È il prodigio che schiude la divina indifferenza" direbbe Montale.  
La svolta avviene quando a casa Maravich giunge un amico di Petar, John Wooden nonché membro della University of California di Los Angeles. "Fa vedere qualche trucchetto al coach, Pete". Che succede? Solo qualche palleggio. Eh? Roba ordinaria. No, no. Quello è Pete. Lo spettacolo è... "stupefacente" o "sbalorditivo" sarebbe un eufemismo riduttivo per lo stato di Coach Wooden. Era chiaro che quel ragazzo sarebbe già potuto entrare, precocemente, tra gli Harlem Globetrotters. Gli occhi dell'ospite stavano spalancati e come dilatati da un qualche processo chimico, ma la verità è che solo Wooden non immaginava che Pete potesse racchiudere tutto quel talento.  
Intanto, la crescita del ragazzo si ferma a 196 centimetri. Questo giovane Maravich è smilzo e spettinato, ma ha il fuoco di un ribelle che vuole divertire il mondo.  
Subito, Pete si accasa sulla costa Southern d'America e così, in Louisiana, trova un campo dove giocare... con il padre, allenatore ora della sua squadra a livello universitario: LSU. Decisamente, questo è un papà sempre presente. Uno stimolo costante, in più.  
In questi anni universitari viene affibiato al ragazzo un soprannome indelebile, che mai si allontanerà dal bisillabo Pete: "Pistol", che riconduce alla sua meccanica di tiro unica nella storia. Bloccando il pallone per sparare lontano, Pete accostava i polsi verso le anche, come se stesse nascondendo una pistola da estrarre nel cinturone. Gli americani allora immaginavano, guardando Pete, i momenti celeberrimi dei pistoleri nei film western di John Wayne, allora una gran tradizione nei cinema dell'intero Stato a stars and stripes. Quello splendido sguardo sulla telecamera seguito da un movimento repentino, poi bang! Pian piano, ad ogni canestro segnato i suoi tifosi lo urleranno: "baaaang!" Ecco da chi ha sgraffignato qualcosa Mike Breen, il più conosciuto dei telecronisti moderni di ESPN.  
E poi Pistol è un soprannome come non ne è esistito quasi nessuno. Quasi. Chiamare Maravich come Peter invece di "Pistol Pete" sarebbe stato come nominare Johnson come Earvin, non come "Magic". Perchè Peter Maravich non è mai esistito, la gente conosce Pistol Pete, un'assonanza indissolubile nella memoria. Ed a Pete piace tantissimo quel nickname, infatti si fa scrivere dietro la maglia "Pistol" invece del cognome ritenuto troppo consonantico.

Dunque, in pochi mesi all'Università, manco a dirlo, Pete semina scompiglio con delle statistiche da predestinato dell'NBA. La gente lo adora, strepita agli iconici canestri realizzati dagli otto o nove metri, capacità mai viste prima di allora nelle università. Quel ragazzo delizia le folle, piace a tutti perchè diverte e si assoggetta anche le simpatie delle folle di fede avversaria. Il suo gioco è qualcosa di innovativo, he got game. Qualcosa che cambia il panorama, che fa dimenticare il tempo atmosferico fuori dai palazzetti. In tre anni Pistol Pete ottiene vari record, ad esempio è il giocatore con più punti segnati nella storia del basketball collegiale, realizza un massimo di 69 punti e chiude la sua esperienza con una media di 44,2 punti ad allacciata di scarpe.  
Nel 1970 Maravich viene estratto dal draft. Nell'interesse generale degli osservatori dell'intero campionato NBA, sono gli Hawks di Atlanta ad aggiudicarsi il talentino di Aliquippa. Purtroppo, si forma una crepa sul suo viso, e ci vuole anche poco tempo prima che si mostri, povero Pete. Dopo un' ottima e prima stagione in maglia Hawks, giunge una diagnosi dolorosa. Pete soffre della cosiddetta "paralisi di Bell", una disfunzione che non gli permette di muovere i muscoli del lato destro del viso. Per giorni non può mangiare, mantiene un' espressione rigida, ma giocare è un piacere, è un incanto  la gente impazzisce per le sue giocate sceniche: passaggi dietro la schiena, tunnel, crossover fantasiosi ed un tiro da tre punti costante. Il dolore ricompare, parte due. Ci vuole poco, ancora meno della volta prima. Mamma Jelena muore, del tutto inaspettato, da suicida. E questo fa più male di tutto, il ragazzo diventa debole caratterialmente, soffre. Soffre. Soffre e gioca. Come ha sempre fatto del resto, non rinuncia al suo talento. Ma la vita pare essere buia, tanto che un giorno, in preda al pessimismo spiegherà: "Non voglio giocare dieci anni in NBA, per poi morire di infarto a quarant'anni".  
I calendari segnano 1974, per Pistol Pete avviene il trasferimento verso i Jazz di New Orleans, operazione semplice con papà Petar vestito da assistente scout dei Jazz. Ma le vittorie non arrivano. Risultati individuali, convocazioni all' All-Star Game. Non bastano. Non sono sufficienti nemmeno i 68 punti, suo record in una delle gare individuali più stupefacenti di sempre, contro i New York Knicks di Walt Frazier e "the Black Jesus" Earl Monroe. Non è abbastanza essere il miglior marcatore della NBA con 31 punti di media nel '77. No. Non bastano e non sono sufficienti ai nostri occhi, ma Pete continua a tirare senza ragionare due volte. A lui non interessano i trofei, piuttosto adora gli applausi. I fan NBA si fanno chiamare "figli di Pistol Pete". Adorano la sua leggerezza nell'interpretare le gare, i suoi tiri centrati da lontanissimo, la sua spettacolarità sul parquet. Ed è questo che Pistol cerca: vuole gli applausi, vuole far impazzire la gente, vuole stupire. Infatti, secondo molti appassionati del basket, Pete è un angelo caduto dal cielo per portare sorrisi. Eppure la parola "Fine", o se preferite "End', fa grossi passi d'elefante, si avvicina e si avvicina sempre più. Attende prima di bussare alla porta della famiglia Maravich, ma sta lì. È arrivato Thanatos che condannò Sisifo, oppure un moderno Joe Black. Solo che Pete non aveva colpe, era un bell'angelo mitico per le folle. Un simbolo di pistolero indelebile.  

Nel 1980 Pistol passa ai Boston Celtics di Larry Bird, ma in poche settimane il suo ginocchio va K.O., dunque si sgretola una coppia destinata a devastare l'intero campionato, il Maravich del Massachussets diviene uno dei maggiori "what if" della storia dell'NBA. Nelle poche partite e negli scampoli di gara di cui lui è protagonista, in quella stagione, registra ovviamente ottime statistiche. Ma quell'anno, Pistol, complici i tantissimi infortuni, decide di stringere la mano per l'ultima volta a Larry Legend, nello spogliatoio. Abbandona il basket a trentatré anni, le ginocchia si sono eccessivamente consumate.  
Negli anni successivi al ritiro, Pistol si vede poco in giro. Si chiude in se stesso ed improvvisamente, colpito dalla sua fine prematura nel basket, giudica la sua vita un fallimento. Probabilmente non aveva mai immaginato la sua esistenza dopo il basket, perché la sua vita era solo il basket. Ed allora spiega ai giornalisti nelle rare interviste di non avere futuro, cade in depressione. Le ombre e le tenebre volteggiano su Pete che incomincia, disperato, ad abbracciare credi assurdi quali ufologia e macrobiotica. Subisce una crisi interiore e spirituale e si fa battezzare da cristiano, infine viene coinvolto pienamente nella vita di chiesa. Il 5 gennaio 1988, a quarant'anni, capisce di aver avuto sempre ragione, o quasi. Immediatamente.  
Invitato da un giornalista a Pasadena, in California, per una partita benefica, Pete incanta. Tira e segna, fa segnare. Un angelo. Poi si ferma per bere, è un po' pallido? "Ti senti bene, Pistol?" La risposta arriva rapida: "Mi sento straordinariamente!" Passa un minuto, Pete piomba sul parquet. Ha gli occhi fuori dalle orbite. L' angelo era volato alto, aveva vissuto quarant'anni senza l'arteria coronaria sinistra. E miracolosamente. La Pistola non rimbomba più. Vorrei poter scrivere che Petar, padre di Pete, fosse corso in fretta con la sua automobile per piangere quel figliolo tanto caro, il ragazzo che lo aveva reso orgoglioso. Che era diventato quello che il padre sognava. Questo è il dispiacere maggiore per Petar, perchè era volato alto anche lui, l'anno prima.  

Allora non era vero che gli abitanti degli States facessero bene a tenere delle pistole perchè potessero proteggersi dal maligno o dagli Ufo. L'ennesimo uomo che non conosce se stesso, ecco uno spietato killer insediatosi nei cuori di molti americani. Ed anche Pistol Pete non sapeva nulla di sè, infatti, tanto da cambiare totalmente opinione della sua vita dopo i trentacinque anni. E comunque non avrebbe mai immaginato di utilizzare la pistola su di sè per sconfiggere il vero maligno, quello che era dentro il suo petto di angelo. Pum pum, c'era una volta Pistol.  

 

Damiano Fallerini