Cammino, e passo dopo passo mi sembra di essere sempre qui, di essere sempre stato qui: con l’acqua del mare che bagna i piedi, quasi a scuotere da quello stato in cui cado, di riflessioni e pensieri più o meno felici. Sono sempre lì, in riva al mare, che sia Praia do Flamengo a Salvador de Bahia, l’Atlantico che bagna Lanzarote, o senza andare troppo lontano, la sabbia che si bacia con l’Adriatico in Lignano Sabbiadoro. Sempre lì dicevo, a muovere passi come a continuare un percorso iniziato anni fa, e che continua, chissà poi fino a quando.
Anni fa, lasciai mia madre davanti alla porta di casa, con gli occhi lucidi per un saluto necessario, ma chiaramente indesiderato. Un rituale che si protrae ancora oggi, ogni qualvolta saluto la mia terra, le mie origini, per fare ritorno in Brianza: gli mando un bacio, dopo averla abbracciata forte, e come al solito mio padre mi accompagna in aeroporto, e alla stessa maniera ogni saluto vive nel limbo tra un “ci vediamo presto” e “chissà quando ci rivedremo, se ci rivedremo”. 

Qualche ora dopo, Miro, un mio carissimo amico, anche lui ammalato di Roma, mi scrive: “fratè come stai? Sono morte due persone che conoscevo e frequentavo”, quasi a consolidare quel mio pensiero, e nel scrivermi ad avvicinarmi in un ipotetico “voliamoci bene e non perdiamoci di vista”. Quel messaggio l’ho vissuto con grande sconforto, come se a volte avessi la consapevolezza che qualcosa di brutto in giro sta succedendo, ma probabilmente è semplicemente quel senso di lasciare qualcosa, qualcuno quando non vorresti farlo. Ogni volta poi è uguale. Ti illudi di farci l’abitudine, come quando lavori su un “callo”: ripeti quel gesto talmente tante volte da non provare più dolore, senza aprire nuove ferite. Non è così, purtroppo, o forse per fortuna: non sarebbe bello abituarsi all’allontanarsi dalle persone care, le più care, quelle che ti hanno dato la vita. A peggiorare le cose, giunge la notizia che un collega - tra l’altro più giovane di me - si è tolto la vita, compiendo un gesto così tanto condannabile, quanto incomprensibile.

E muovo i miei passi, baciato dal sole e dal vento, colpito da granelli di sabbia che come l’acqua mi ricordano che esisto, sono li realmente, e quel che accade, succede davvero. Talvolta infatti, mi capita pure di dubitare di esserci davvero, di essere senziente, reale, quasi come se fossi un pensiero che vaga da un corpo che materialmente è fermo chissà dove.
Quando a Gennaio mi sono ritrovato davanti al Cristo Redentore di Rio de Janeiro, sono rimasto talmente colpito che mi sono più volte pizzicato il braccio per essere sicuro di essere lì in quel momento: ora ho smesso di pizzicarmi, per vivere l’illusione di esserci ancora.
Proprio ieri, Jay mi chiedeva come mai fossi così sorridente nella foto profilo di whatsapp; nello specifico, la foto ritrae uno degli ultimi momenti in Brasile, per cui lo stato d’animo era tutt’altro che “felicità”: quel sorriso nascondeva l’ennesimo saluto, non il mio che era rivolto solo a una terra, seppur straordinaria come quella verdeoro, che mi ha dato tanto attraverso le persone che mi hanno accolto lì, come uno di famiglia; era il saluto suo, di Jay alla madre, anziana e quindi ancora più prossima al discorso del “chissà quando, soprattutto se”.

Già, le foto, quelle sì che restano immortali, o almeno nascono con quell’intento: l’ennesima "diavoleria" dell’uomo, ossessionato dal lasciare un’orma, un segno del cammino, una traccia indelebile, non accettando l’idea di essere il niente in un’infinita linea temporale. Che poi, non è pure per questo che si mettono al mondo figli? Non so, credo che inconsciamente sia un ulteriore modo per tentare di fregare la morte, come a dire “io passo, perché è inevitabile, ma mio figlio sarà qui a rappresentarmi, pieno di “dna” del sottoscritto”.
Ma la morte non si può fregare amici, perché è strettamente legata alla vita, e ogni progetto che abbiamo in testa deve fare i conti con quello che succede mentre viviamo, e quasi mai quel che stiamo facendo è quello che avevamo in testa. Avere uno schema, un progetto, un sentiero da seguire, è necessario, ma le “uscite obbligate” esistono, e non sempre ti riportano nella direzione che volevi.

C’è poi chi scrive, come me, invaghito dal concetto “scripta manent”, e oggi forse più di ieri ciò che scrivi resta, nell'immenso "sacco" che è internet: la carta si rovina, un file condiviso online resta, nel bene e nel male. Che bello però scrivere, intendo farlo davvero, non con una tastiera: l’odore della carta e dell’inchiostro, gli errori che restano pur nel goffo tentativo di cancellarli, e una grafia che è solo tua, senza poter scegliere stili e misure. E’ tutto così… autentico.
Pensandoci bene, con l’evoluzione degli smartphone, le foto non sono poi così “immortali”, seppur digitali e condivisibili: se uno scatto non ti garba lo rifai, e se proprio non ti piace ciò che vedi usi i filtri, finendo per avere un ricordo irreale, di una persona che non sei e che non eri neanche. Mi chiedo: ma ha senso? Non erano meglio le foto con i rullini? Seppur sgranate, sfocate, e con pose che spesso finivano per essere ridicole, ma al tempo stesso un Ricordo, con la erre maiuscola, un piacevole, vero, reale momento della vita? Non sono per demonizzare la tecnologia, anzi, ne sono attratto come la maggioranza delle persone, però è un po’ come quei posti che si vanno a visitare: più turistico è, meno autentico finisce per essere. Tipo quando sono andato a Lisbona: niente da dire, capitale molto bella, praça do comercio affacciata sul mare è uno spettacolo… però… però è estremamente turistica, finendo per essere molto poco portoghese, non so se rendo l’idea. Diverso il caso di Porto, che mantiene un’anima più del posto, piena di azulejos (piccole piastrelle dipinte a mano, di colore bianco e azzurro che ornano molti edifici del posto) e meno battuta da quel turismo di massa che pervade la capitale lusitana. Ecco, facendo un paragone impossibile, Lisbona è una foto bellissima, scattata con le migliori tecnologie digitali; Porto invece, conserva quei difetti dell’analogico che la rendono nostalgicamente stupenda, con colori meno “fantasy”, più rumorosi, quindi reali.

Tra un passettino e l’altro, c’è spazio anche per VxL, da tre mesi ormai un “caffè” fisso nelle mie giornate: più di uno in realtà, perché da leggere ce n’è, più di quanto riesca a fare, più di quanto i tanti che pubblicano meriterebbero. Pur non avendo avuto modo di conoscere nessuno dal vivo, le storie lette sul blog hanno inevitabilmente finito per creare un contatto, immerso nelle pagine dell’esistenza di meravigliose penne, che sono poi riflessioni su quanto accade nel mondo, e nel loro mondo, quasi a tenere il calcio come contorno, come in realtà dovrebbe essere se solo non fossimo tutti dei fanatici di questo sport.

Che poi anche nel calcio, le pagine che vengono scritte dai grandi interpreti rischiano di “ingiallirsi”, sembrando meno incredibili, meno gloriose di quanto in realtà siano state. Cassano qualche mese addietro, forse un anno a pensarci bene, disse che di Totti non ci si sarebbe ricordati a distanza di vent’anni, che sarebbe passato alla memoria quasi come un signor nessuno, non essendo stato un interprete ai livelli di Maradona o Pelè: in quel momento la mia reazione fu di stupore e sgomento, della serie “Antò…ma che ca** stai dicendo?” In realtà, temo che avesse ragione, non tanto noi romanisti, non tanto noi che l’abbiamo vissuto nel massimo splendore, ma chi verrà dopo ne avrà per forza di cose un’idea lontana, di uno che è stato forte, ma comunque uno dei tanti, soprattutto quando alla Roma sarà arrivato qualcun altro che faccia innamorare, a maggior ragione per un tifoso di una strisciata, così abituati negli anni a vedere gente di grande spessore tecnico.
Leggo Massimo48 parlare di Rivera e chiaramente so chi sia, so cosa è stato per il Milan e per il calcio, ma non l’ho vissuto, non ho avuto modo di vivere le sue gesta; mi fido di chi ne parla, di chi tiene viva la memoria del suo straordinario talento, ma in ogni caso non sarà mai per me quello che è stato Totti, non perché non ne sia degno, semplicemente perché non ho avuto modo di valutare con chiarezza che interprete fosse. Qualche giorno fa, un ragazzino mi ha messo Neymar davanti a Ronaldo il fenomeno: per me che mi sono affacciato al calcio nel solco delle sue grandi giocate, è stato un colpo durissimo da digerire, dovendo però affrontare il fatto che per lui sia stato lo stesso con l’attuale stella della seleçao. Sappiamo tutti che il ragazzino si sbaglia di grosso, che Ronaldo è stato un Dio del calcio e che Neymar se lo sogna di essere anche solo il ciuffetto terribile con cui il numero nove si presentò ai mondiali del 2002, ma c’è da affrontare la realtà delle cose: lo scorrere del tempo “sfoca” le gesta dei grandi calciatori, finendo per farli sembrare normali, tra i tanti, a distanza di tempo.

Che poi è successo ad esempio anche con Valentino Rossi e Giacomo Agostini, tanto per distanziarci dal calcio ma non dallo sport. Per mio padre non ci sono dubbi: Agostini superiore a Rossi: una valanga di titoli mondiali, un pilota senza senso del pericolo, aggressivo e vincente; per me che sono cresciuto con quel “demonio” di Tavullia che ha annichilito uno dopo l’altro i suoi avversari, destabilizzandoli al punto da farli allontanare dalla motoGP, Rossi è il più grande della storia, “the goat”, il re indiscusso e indiscutibile. D’altronde se non ci fossero nuovi “eroi” da tifare, non resterebbe altro che spegnere ideologicamente uno sport, pensare in via definitiva “questo è il più forte di sempre e per sempre, arrivederci e grazie, trovatevi un’altra attività perché qui un altro di più grande non ci può essere”. Sto divagando lo so. Un modo per evitare che la tristezza prenda il sopravvento.

In questi momenti vorresti far pace con il mondo intero, più che mai convinto che non c’è tempo per avere nemici, non c’è tempo per “tenere il muso”. L’odore di salsedine, il passeggiare alla scoperta di un litorale che sembra non avere fine, porta lontano, con la mente, nei pensieri. Qualche anno fa c’era un film in cui si diceva “vorrei svegliarmi domattina e avere trent’anni per vedere che ne sarà di noi”(G. Veronesi - Che ne sarà di noi)… quanto sono passati veloci gli anni! Ora che ne ho davvero trenta e passa, continuo a essere su quella riva, e di cose certamente ne sono cambiate, qualcuno si è pure sposato, ha figli, e fra un po’ saranno i loro ragazzi a ritrovarsi lì, per domandarsi il futuro. Altri invece, purtroppo non ci sono neanche arrivati a trent’anni. A volte, sempre sulla via della riflessione, li sul bagnasciuga, penso “quanta gente che ho incrociato negli anni sarà ancora qui, viva, in salute? I bambini che mi hanno sorriso, adesso cosa sono? Qualcuno di loro, sarà diventato un poco di buono?”. Ascolto Redemption Song di Bob Marley e penso “Chissà quanti altri la stanno ascoltando… Chissà se non c’è qualcuno proprio qui, che la sta ascoltando!”. Non vedo mia sorella da luglio. Anche lei allontanata dal lavoro, vive "fuori", a Cuneo, un posto carinissimo ma piuttosto complicato da raggiungere, un po' per i diversi orari lavorativi, ma anche perché è proprio scomoda logisticamente, non essendo collegata direttamente sulle “rotte classiche” che congiungono nord e sud (Milano-Bologna-Firenze-Roma-Napoli per intenderci). E quindi non è solo con gli amici che non ti vedi: rischi di perdere contatto anche con i familiari. Passi una settimana a casa e vorresti fare tutto: andare a trovare gli zii, salutare i cugini, rivedere gli amici, ma non c’è tempo! Scappa via, e ancora una volta sei costretto a scegliere, facendo in ogni caso "torto" a qualcuno, o almeno è quello che pensi.

Gli amici… che bellezza! Un paio di messaggi su whatsapp ed eccoci al tavolo di una braceria, pronti a divorare carne come fossimo appena tornati da una battuta di caccia! Luca, Antonio, i due Pasquale…non si era al gran completo purtroppo, ma che gioia condividere un bicchiere di vino e raccontarci il presente e le marachelle del passato: impagabile!
Purtroppo ci sono anche quelli a cui eri legatissimo, ma per una ragione o per un’altra, non li vedi più. 
Uno è Francesco di Cecina: quante ne abbiamo combinate insieme, eh Francè? Eravamo commilitoni nel periodo da militari. In stanza insieme, in giro per Bergamo e ovunque ci indirizzasse la macchina, eravamo praticamente inseparabili. Un bel giorno, anzi, un brutto giorno, gli telefono e mi chiede chi sono, intuisce e mi congeda con un “ti chiamo dopo”…cambia il numero di cellulare e sparisce: "ma che ti ho fatto amico mio? Spiegamelo, parliamone e ti chiedo scusa, se proprio ho fatto qualcosa che non va". Quante volte mi sono fatto questa domanda, da solo, nel silenzio, camminando sulla sabbia. Ci sono anche queste persone qua, che decidono di chiudere un capitolo e basta, unilateralmente e senza motivi apparenti. Francè…non c’è tempo di stare arrabbiati col mondo, senti a sto stro**o! In ogni caso, spero che stai bene, ti ho voluto bene e porterò sempre con me un meraviglioso ricordo. Un altro che non vedevo da tempo, e che certamente non vedrò più, almeno non su questa terra, è Marco. Te lo ricordi Francè? Certo che te lo ricordi. Impossibile dimenticare i nomi scritti su quella bandiera tricolore che conservo gelosamente nella mia stanza, tra le memorie da militare, a Terzigno. Ma tanto siamo tutti così, io stesso che adesso vivo con sconforto questo momento, passata la "bufera" continuerò a proseguire sui binari di sempre, spesso snobbando cose importanti, mirando poi chissà a cosa, correndo verso cosa? Litigando per quale futile motivo? A venticinque anni, un cancro, il male dei giorni nostri, se l’è portato via, insieme alla gioia che lo contraddistingueva, la voglia di ballare e divertirsi, e i tanti sogni, che poi erano i sogni di tutti noi, ragazzini a 400, 800 e 1000 o più chilometri di distanza da casa. Mi manchi Marchetiè…pure le tante “balle” che raccontavi, millantando centinaia di mestieri racchiusi nei ventidue anni che avevi all’epoca…quanti ricordi! Vorrei tanto dirti che non sei morto invano, che hai lasciato un segno, e l’hai fatto credimi, in me, in chi ti ha conosciuto…però 25 anni…sono davvero troppo pochi, la tua storia avrebbe meritato un finale più completo, meglio definito. Ti posso promettere però, che parlerò di te, di un catanese fiero, un ragazzo orgoglioso del suo percorso, un picciotto per bene e innamorato di ciò che faceva, un buon militare, un amico.

Qualunque sia il tempo a cui siamo destinati, quanto che sia il tempo a nostra disposizione, siamo questo fondamentalmente: ricordi, scritti e da scrivere, e se possibile da tramandare. Il cammino che facciamo è una storia: all’interno tutti sono di passaggio, chi per un giorno, un’ora, gran parte della vita, o banalmente nell’incrocio di uno sguardo. Che siano cinquant’anni o un millesimo di secondo, ogni persona compone un pezzo di ciò che sei. 
Un cuore sulla sabbia riporta serenità: vai FR27… sorridi, hai tutto. Sorridi anche per chi non può farlo più, e sorridi perché chi temi di perdere, sorride pensandoti felice. 
L’acqua è gelida… mi avevano detto fosse calda… Se non altro regala qualche momento di lucidità: fa ricomparire la gente sulla spiaggia, le orme sulla sabbia, gli hotel che fanno sfondo e le palme, i soli posti all’ombra in una giornata di luce trionfale. 
Quanto è bello il mare… la sua maestosità, la forza delle onde, rende appieno l’idea della forza della natura, la sua immensità ci rammenta quanto siamo piccoli: come i granelli di sabbia trasportati dal vento, e quanto fragili: come le orme sulla stessa sabbia, che sommerse dall’acqua spariscono alla medesima velocità con cui si sono formate.

Una coppia di tedeschi (a proposito: ma quanti sono? Sono ovunque!) cammina mano nella mano: lui con una pancetta accettabile, brizzolato e con le canoniche guance rosse che “sanno” di Oktoberfest; lei condivide le guance e la pancetta, oltre al seno nudo ballonzolante: azz! Quanto siamo diversi…I tedeschi vivono il loro corpo con una leggerezza molto lontana da usi e costumi nostrani. Ti viene pure da pensare “Che bello!” In realtà inutile pensarlo, non saremo mai così, noi. Non che sia per forza un qualcosa di negativo, intendiamoci. Sicuramente non gli invidio i calzini nelle pantofole, ma un approccio in pubblico meno “abbottonato”, più da girovaghi del mondo, non lo trovo sbagliato. Prendersi un pochino meno sul serio forse aiuta a entrare nell’ordine di idee che non sono queste le cose importanti, che qualificano un individuo. Anche per questo è importante visitare altre città, venire a contatto con le abitudini degli altri, prendere coscienza che in Italia c’è tutto, ma che l’Italia non è tutto: si vive bene anche all’estero non indossando capi alla moda, si vive pure senza mangiare la pizza o la carbonara, anche mangiando uova e bacon al mattino piuttosto che cornetto e caffè. Siamo i migliori? Boh non lo so. Preferisco mangiare la pizza, e fare una colazione dolce? Si, senz’altro, ma questo non significa che chi non lo fa sia stupido o inferiore. V
ai a Salvador de Bahia e molti camminano scalzi: a primo impatto ho pensato “questi so matti”. Tanti girano a petto nudo, e vorrei ben vedere con inverni da 20 gradi ed estati da 40! Qui se giri senza maglietta, in piena estate, a momenti ti becchi una denuncia per atti osceni. Senza parlare delle infradito: “oddio, quello gira in infradito! Che roba è?” Siamo davvero migliori a fare sti discorsi? O siamo semplicemente ridicoli ad attaccarci a cose di una futilità disarmante?
Oggi sono polemico oltremisura, mi rendo conto. Sarà che sono alla fine del mio peregrinare senza meta: gli ultimi passi sulla soffice sabbia, prima di tornare ad affrontare la realtà, quella da cui in sostanza non mi sono mai staccato. I piedi però sono bagnati, la pelle scotta, e l’odore di crema solare mi dice che sono davvero qui, a contemplare l’orizzonte che si dispiega lungo l’oceano. 
Per chi è andato, non c’è modo di tornare. Chi si è solo fermato, trovi il modo di ripartire, faccia in modo di stare in pace con il mondo: Gente…non c’è tempo per avere nemici! Vogliamoci bene!

Ciao Guagliù!

ForzaRoma27