Poter fare sport è una fortuna, di questi tempi. Molte discipline sono vietate a seguito delle restrizioni per il coronavirus. Palestre e piscine sono chiuse, solo lo sport all’aperto si salva parzialmente. 
Mio figlio ha nove anni e gioca a calcio da quando ne aveva sei. Nonostante il padre, ossia il tizio panciuto col sigaro in bocca che sta scrivendo questo articolo, in gioventù sia stato un calciatore di poche speranze e di ancor minori certezze, un medianaccio di Prima Categoria che azzannava le tibie e i peroni sui campi di tufo del dilettantismo campano… il tizio di cui sopra ha fatto di tutto per convincere il proprio figlio a fare altro: basket, judo, nuoto. Non c’è stato nulla da fare, il bambino vuole giocare a calcio.

E allora scuola calcio sia, l’importante è fare qualcosa, ché lo sport fa bene al corpo e alla mente, aiuta a socializzare, stimola la crescita fisica e intellettiva. Vicino casa abbiamo un’ottima scuola calcio, organizzata in maniera seria senza essere eccessivamente seriosa, con tecnici preparati e seguiti dall’Atalanta, società a cui la scuola calcio è affiliata. Viene insegnato a giocare a pallone, non a vincere. I metodi di lavoro sono completamente diversi da quelli che svolgevo io quando, pulcino o esordiente, facevo scuola calcio. Detto tra noi, preferivo i metodi dell’epoca. Il mister che ti diceva di chiudersi “a cuoppo” quando la palla era degli avversari, di aprirsi “a valanzola” quando il possesso era nostro. Quel mister insegnava la difesa a uomo e le sovrapposizioni, dedicava tantissimo tempo alla tecnica individuale, “perché ‘o cuntroll ‘e palla è ‘a primma cosa, ‘a chiù importante!”. 
Mi dicono che il calcio si sia evoluto. Non ho strumenti né titoli per contestare tale affermazione. Devo fidarmi e mi fido. Mio figlio è felice di andare alla scuola calcio, il giorno degli allenamenti è sempre un bel giorno per lui. Tanto mi basta, non chiedo altro. Nell’ultimo anno, però, ho assistito alla trasformazione della scuola calcio a seguito di questa dannata pandemia. E il mio cuore, per quanto felice di vedere comunque mio figlio correre dietro a un pallone insieme ai suoi compagni di squadra, ha cominciato comunque a lacrimare.

Tantissimi aspetti, che sono fondamentali e bellissimi nella vita di un giovane calciatore, sono oramai completamente scomparsi. Si pensi alle partite contro le altre scuole calcio. Che sia amichevole o campionato, poco cambia: la partita era il momento in cui indossavi i colori della tua scuola calcio e ti confrontavi con altri ragazzi che non avevi mai visto. Chissà se questo è mancino, chissà se quello corre tanto ed è veloce. La partita significava avere il tifo ai bordi del campo, sentire decine di genitori esultare al goal o applaudire per una bella giocata. Se invece andavi a giocare fuori casa, beh… allora andavi in trasferta! Sentite il suono della parola “trasferta”: oggi che siamo adulti, pensiamo probabilmente a una trasferta di lavoro; quando eravamo fanciulli e dormivamo col pallone tra le lenzuola, “trasferta” significava andare in territorio nemico, su un campo sconosciuto, in uno spogliatoio mai visto e che profumava di olio canforato, se andava bene, o di umidità e scarichi tappati, se andava male.
Mio figlio e i suoi compagni non hanno avuto modo di affezionarsi alle trasferte: ne hanno fatte pochissime e da oltre un anno non ne fanno più. Anche le partite sono vietate. Persino il contatto fisico deve essere limitato al massimo. Moltissimi esercizi, infatti, non devono prevedere che i bambini stiano a stretto contatto tra loro. Il calcio è uno sport di contatto, la contraddizione è manifesta. Si pensi anche a gesti più semplici, come condividere una borraccia quando il mister urlava “andate a bere!”: oggi non si può più, ognuno ha la propria borraccia, se un compagno ha sete ed ha finito l’acqua non gliela puoi offrire.
E che dire di quelle piccole condivisioni da spogliatoio? Farsi la doccia tutti insieme, sfottendo Tizio e prendendosi gli sfottò da Caio, mentre Sempronio intona una canzone e tutti gli vanno dietro. Oggi gli spogliatoi sono vuoti, sono chiusi, inaccessibili a tutti. Dopo l’allenamento ci si fionda in auto e si corre a fare la doccia a casa. 
“Ringrazia il cielo che faccia sport! Mio figlio, che faceva nuoto, non può farlo più perché la piscina è chiusa e chissà quando riaprirà!”. Quante volte ho ascoltato questa obiezione. E non posso ribattere nulla, perché paradossalmente è proprio così: i bambini delle scuole calcio sono fortunati. Non giocano partite contro squadre avversarie, non vanno in trasferta, non condividono nemmeno una borraccia, non fanno la doccia insieme, devono limitare al massimo il contatto fisico, eppure sono fortunati.

Povera scuola calcio, costretta dal covid ad insegnare e a far vivere ai nostri bambini solo una piccola parte di ciò che il Calcio è. La più importante tra le cose non importanti, disse qualcuno.
Mai come in questi mesi di pandemia tale affermazione mi è sembrata così vera.