Sono nato a Montecchio, una località esattamente a metà tra Parma e Reggio Emilia e in Provincia di quest’ultima. Quel luogo, però, ha fatto da semplice culla dei primi giorni perché poi mi sono presto trasferito sulle colline dell’Appennino da dove non mi sono più mosso. Per comprendere il resto della storia è necessario conoscerne l’ambientazione. La geografia di un determinato posto ha un’evidente influenza sul modo di pensare e di agire dei suoi abitanti. La Città emiliana si estende dal Po, che ne evidenzia il confine nord con Mantova, al Passo del Cerreto. Questo ne delimita il distacco dalla toscana Massa-Carrara. A est, invece, si trova Modena, mentre a occidente ci sono i nominati ducali. Si tratta di un territorio lungo e stretto. Una lingua che si differenzia enormemente dal basso all’alto ed è, invece, indistinguibile passando da destra a sinistra. Questo vale per ogni zona della provincia. Dalla Bassa, piana e fatta di campi infiniti interrotti da qualche casolare contadino o da paesini rurali che paiono rimasti a un’epoca antica, si passa alla Città poi si giunge sulle prime alture. Si tratta di dolci rilievi appena sopra il livello del mare pullulanti di magnifiche ville dove, probabilmente, risiedono parecchi dei tanti industriali di zona. Distano, infatti, pochi chilometri dal cuore pulsante dell’economia, ma sembrano guardarlo da sopra donando un senso di costante controllo con posizione favorevole. Come il castello che, dalla cima della roccia, sovrasta il villaggio sottostante. L’ideale per chi deve comandare. Da qui, nelle giornate limpide, magari dopo un temporale, si può ammirare la Pianura Padana sino alle Prealpi Venete che paiono chiudere il mondo conosciuto. Più a sud si trova l’inizio delle colline con piccole borgate a misura d’uomo. Abito proprio lì. Si giunge, poi, al vero Appennino che, sino a quota 800 metri, è ancora densamente vissuto con qualche possibilità di occupazione. Al di sopra, il tempo sembra sospeso. Se in estate questi luoghi sono ricchi di villeggianti in cerca di riparo dalla calura sottostante, nelle altre stagioni sono desolatamente vuoti fatta eccezione per quei pochi che presentano la possibilità di sciare durante le vacanze di Natale.

Chi vive nella mia zona, e ha la fortuna di avere un lavoro, o è un pendolare oppure presta servizio nelle tante piccole industrie presenti e negli esercizi commerciali nati per accompagnarle o al fine di facilitare la vita agli abitanti di zona: bar, ristoranti, birrerie, edicole, tabaccherie, supermercati, lavanderie… Se è necessario trasferirsi tutti i giorni in Città, non è semplice. Per carità, i chilometri non sono tanti. Si parla di una ventina, ma il traffico li rende un’odissea. Così, chi parte la mattina presto rientra la sera piuttosto tardi. Tuttavia, non voglio perdermi in troppe chiacchiere. La mia descrizione non è certamente manzoniana, ma penso che la location sia piuttosto chiara. La storia e lo stile di vita definiscono la cultura. Questa popolazione è cresciuta in balia dei pochi signorotti che concedevano opportunità di guadagno. Si è sviluppata così la mentalità tipicamente proletaria. Con il trascorrere del tempo e l’amplificarsi dell’industrializzazione, sono cresciuti molti self-made man che hanno aperto loro attività con relativi operai. Tali imprenditori, però, non hanno abbandonato definitivamente le idee dei genitori. Dalle bandiere rosse, si è passati a una sinistra più moderata. Insomma, senza volere fare politica o fornire giudizi di valore, il concetto è chiaro. Si tratta di grandi lavoratori che donano enorme importanza all’ambizione e alla carriera. Le loro radici li rendono piuttosto ostili a ciò che riguarda l’ecclesiastico, ma vi sono tanti che frequentano l’ambiente in maniera molto concreta. In sostanza, una religione fatta maggiormente di opere. La scuola è un punto fermo perché l’emancipazione è tutto: “Così nessuno ti può fregare e ti crei la tua posizione!. In ultimo non mancano assolutamente i cliché tipici della sinistra. Non li nomino perché lascio spazio alla Vostra immaginazione. Ribadisco che non si tratta di critiche o complimenti, ma soltanto di un’analisi tipica del verismo. Non mi paragonerei mai a certi letterati a cui non sono degno nemmeno di fare da scriba. Solamente vorrei rendere l’idea.

Sono cresciuto in questo contesto, ma non mi trovo esattamente inquadrato in tale dimensione. L’11 settembre 2001 ero poco più che un bambino. Avevo quasi 13 anni e mi apprestavo a frequentare la terza media. Ricordo perfettamente dove mi trovavo e cosa stessi facendo. Gli psicologi parlano di falshbulb memory. È la memoria di qualcosa di traumatico. Per l’attacco alle Torri Gemelle è classico di un’elevata percentuale di persone. Ero a un compleanno di un mio amico e rammento che, rientrati dopo una partita a pallone al campo sportivo, notammo sua nonna guardare la televisione. Ci rendemmo presto conto di cosa stesse accadendo. Ero troppo giovane per farmi un’idea di quello che sarebbe stato il futuro. Non era un semplice attentato. Già affiancare quell’aggettivo al sostantivo è qualcosa di cui mi scuso perché inconcepibile ma, in tale frangente, si trattava di qualcosa diverso. Per motivi anagrafici non posso rimembrare se, nell’immediato, si fosse compresa l’entità delle conseguenze. Ricordo, infatti, che dopo lo sbigottimento iniziale, riprendemmo i toni festanti andando a giocare alla playstation. D’altronde “so ragazzi”. Si trattava di un attacco al cuore della civiltà occidentale. Era un qualcosa che potenzialmente rigettava diritti nel clima di Guerra Fredda conclusosi soltanto poco più di 10 anni prima. Anzi, forse persino peggio. Nel 2001, infatti, lo scontro era frontale e già avviato. Se la Cortina di Ferro è stato un lungo annusarsi senza condurre, fortunatamente, al gesto estremo scatenante il conflitto, l’oltraggio alle Twin Towers avrebbe potuto rappresentarlo. Ero un infante e pensavo esclusivamente alle conseguenze del momento. Soffrivo, per quanto può farlo un tredicenne, per le vittime e mi ritenevo fortunato che i miei parenti non fossero là. Nulla di più. Iniziai a percepire la gravità delle conseguenze legate a quei fatti soltanto durante la serata quando si sarebbero dovute disputare alcune gare di Champions League, ma furono sospese. Che fine avrebbe fatto la nostra quotidianità?

Se accadesse adesso un simile evento, rimuginerei su un cambiamento radicale della nostra esistenza. In che senso? Con la mente dell’adulto, mi sarei trovato catapultato in questi pensieri. L’attacco a Manhattan era un attentato nuovo. Da parecchio tempo, infatti, non accadevano simili eventi. L’obiettivo non era soltanto l’edificio, chi vi stava all’interno, una singola persona, associazione o Paese. Il target era un certo stile di vita. Al Qaeda voleva conquistare il mondo. L’idea era quella di esportare un determinato tipo di cultura che conquistasse “la malata parte del pianeta”. La Jihad era pronta a colpire. La Guerra Santa aveva lo scopo di convertire i peccatori occidentali, quelli che vivono nel progresso e nella modernità. Insomma, una minaccia mica da poco. Anzi, un pericolo terribile. Se erano stati in grado di dirottare 3 aerei di cui 2 avevano centrato l’obiettivo colpendo al cuore l’America, emblema della cultura nemica, avrebbero potuto fare altrettanto in ogni dove. Un lockdown, per esempio? E perché no? Insomma, sarebbe stato il modo più semplice per proteggerci. Immaginate la situazione. Ci si trovava, esattamente come oggi, di fronte a un’emergenza sconosciuta per cui non si avevano le armi necessarie al fine combattere. Forse sarebbe stato il caso di fermarsi. Bisognava spegnere tutto per un periodo di tempo, studiare la vicenda, predisporsi al nemico e affrontarlo. Invece, nulla. Nemmeno i voli si bloccarono a lungo. Già poco dopo, il mondo era attivo con le necessarie misure di sicurezza che non limitavano per nulla ogni tipo di libertà individuale. Al fine di esemplificare in modo banale penso ai vari controlli nei check-in degli aeroporti, oppure alla cabina pilotata blindata, ma anche all’aumento delle verifiche antiterrorismo in qualsiasi ambiente della vita comune. Se ci si riflette attentamente, l’obiettivo sensibile avrebbe potuto essere dappertutto. Anche nel quotidiano. In effetti, più tardi, sono state attaccate metropolitane come a Madrid, strade trafficate tipo a Nizza, locali notturni stile Bataclan o redazioni di giornale alla stregua di Charlie Hebdo. Nonostante tutto, la nostra esistenza non è mai stata modificata in misura radicale. Abbiamo assistito a qualche piccolo cambiamento, ma nulla di eclatante. Questo è stato un grande successo perché un’eventuale, diversa reazione avrebbe dato adito e speranza a chi la stava proprio cercando per imporre il suo modo di vivere.

Sono trascorsi poco più di 18 anni in cui ho imparato a convivere con queste tristi vicende di cronaca e, maturando, le comprendo meglio. Il substrato culturale in cui vivo è evidente. La maggior parte delle persone condanna ferocemente determinati fatti, ma non concorda con le scelte interventiste americane. Nel 2003 le bandiere arcobaleno con scritto “PACE” campeggiavano praticamente su tutti i balconi così come nel 2020 accadeva ai cartelloni: “Andrà tutto bene”. Gli studenti dei licei, più avvezzi alla cultura politica-filosofica, marciavano lungo le strade reggiane sventolando i loro vessilli e cantando contro la guerra. La democrazia non si esporta. In effetti, parrebbe un concetto condivisibile. Non ritengo corretto costringere il mio stile di esistenza a chi non lo ha. Nella realtà dei fatti, però, i recenti accadimenti afghani dimostrano che i talebani erano, a loro volta, degli “impostori”. Dopo quasi 20 anni di liberalismo dai caratteri occidentali, il popolo, soprattutto di sesso femminile, apprezzava quel modo di esistere. I corpi caduti dagli aerei in fuga da Kabul ne sono la dimostrazione concreta. Allora si comprende che, forse, gli USA non avevano compiuto un’attività tanto usurpatrice. “Ma lo avevano fatto con altri interessi economici, magari legati al petrolio” si diceva qui da me. “O forse è pura vendetta”. Ora, senza cadere in teorie machiavelliche con il fine che giustificherebbe il mezzo, nessuno ha mai pensato che gli Stati Uniti e le altre potenze siano intervenute anche con lo scopo di controllare un nemico pericoloso? Non impegnato e in grado di gestire dei territori, questo avrebbe potuto rendersi ulteriormente devastante. Ma non voglio entrare in diatribe da cui potrei pure non uscire. L’ho detto. A Reggio Emilia, spesso, sono un pesce fuor d’acqua. Vado oltre. “Perché se ne sono andati senza aver portato a compimento l’opera definitiva?” Ecco, questa domanda tipica dei miei conterranei, è pure mia. Forse, però, nemmeno loro si attendevano un’escalation così rapida e aggressiva da parte del nemico. Anche se diventa difficoltoso immaginarsi che non avessero compreso a fondo la situazione lasciatisi alle spalle, voglio credere abbiano eseguito un equo bilanciamento tra le necessità di rientro e quanto stava accadendo in Afghanistan commettendo un errore di valutazione. Dall’uomo non ci si può mai attendere la perfezione. Dalle mie parti sono assolutamente inclusivi e pronti ad accogliere l’altro. Qui mi trovo essenzialmente d’accordo, ma con una specifica importante. Aiutare il prossimo significa anche sapersi dosare. Se si aprono le porte senza alcun freno, si rischia di creare un doppio danno. Chi arriva senza prospettiva, infatti, si trova a vivere per strada. È deleterio. Urge riuscire a comprendere quali siano le possibilità di accoglienza e limitarsi a quelle provando a svilupparle al massimo. Dove vi è grande povertà, il pericolo di aumentare il tasso di criminalità è forte. Quando si devono sfamare i figli...

Se questa incredibile minaccia non ha, comunque, modificato il nostro stile di vita, lo ha fatto un microbo come il coronavirus. Per comprendere ciò di cui parlo basti anche solo pensare all’ansia che ci provoca la parola “COVID”. Se confrontata a quanto scritto sopra, la differenza è incredibile. Non ci dobbiamo sentire in colpa. È normale. L’attacco a New York o gli altri avvenimenti non hanno arrecato su di noi le conseguenze del SarsCov2. Quello ha modificato radicalmente le abitudini del mondo occidentale. È incredibile! Ciò che alcuni avrebbero voluto compiere tramite la Jihad è stato realizzato, con effetti totalmente diversi, da una semplice microparticella chimica. La modernità è stata messa KO. L’uomo è imperfetto e si deve rendere conto dei suoi limiti. Voglio chiudere ponendovi soltanto alcuni quesiti che seguono dei ragionamenti. Nella mia zona, la scienza è trattata quasi da tutti come una divinità. Purtroppo, però, debbo constatare che sia una prassi piuttosto comune e credo anche di conoscerne la motivazione. È l’istinto di sopravvivenza. Tale disciplina è quanto di umano più vicino a Dio e innalza l’uomo donandogli un’aurea di invincibilità, quindi, un’enorme speranza. Quest’ultima è assolutamente sana, ma deve essere tenuta entro certi limiti. Perché? Sovente si impone un’oggettività che concretamente non si può raggiungere. Per constatarla basti pensare a cosa accade quando ci rechiamo dal medico anche per la più semplice visita. Magari Tizio ci dice “A”, mentre Caio afferma “B” e Sempronio “C”. Se fosse senza errori, andrebbe tutta nella medesima direzione. Non è così e non mi stupisce perché immanente. Allora vi chiedo: se non fossero giunte dalla “madre scienza”, sareste stati disposti ad accettare tutte le limitazioni alla libertà individuale avute nell’ultimo periodo? Se ve le avessero proposte per proteggervi da una minaccia terroristica, come le avreste accolte? Attenzione! La mia non è intenzione polemica. Tutt’altro. È soltanto volontà di scavare nel profondo. Vi rendete conto della responsabilità che si sta dando a queste persone e delle aspettative che si ripongono in loro? Non potranno mai soddisfarle in quanto nessuno ne sarebbe in grado. Proprio per questo li scaricherei di un tale fardello e cercherei di assumere scelte che siano in linea con le loro indicazioni, ma che tengano in considerazione le altre molteplici e rispettabili esigenze. Penso che, dopo un inizio molto rigidamente pedissequo, le istituzioni si siano rese conto di ciò e abbiano tracciato un diverso percorso più equilibrato. Il Professor Alessandro Barbero ha recentemente affermato di non concordare con chi sostiene che, durante un’emergenza, possa essere messa da parte la democrazia per il bene comune. Per anni si è lottato per raggiungere un determinato status e non penso si possa lasciare da parte per nessun motivo. Non lo si è fatto per il terrorismo, non si deve seguire quella direzione nemmeno per il covid che, mi rendo conto, ha inevitabilmente modificato i nostri stili di vita in maniera determinante costringendo i Governi a scelte molto drastiche. Ciò che affermo non vuole avere alcun riferimento al lockdown e ancora meno al green pass o all’obbligo vaccinale. Non intendo entrare nello specifico in cui i confini diventano troppo labili e per cui dovrei scrivere altre pagine di un pezzo già molto lungo. Il mio discorso è assolutamente generico e resta fermo all’ambito dei valori.

Chiudo. Lo prometto. La paura è che, vedendo la reazione umana e, ripeto, giusta o sbagliata non sta a me deciderlo, di fronte al covid, qualche persona malata di mente, magari alla guida di alcuni regimi possa avere davvero appreso come si riesca a vincere una guerra contro la civiltà.