Dai sedici ai diciotto anni ebbi la grande fortuna di trascorrere le mie vacanze estive praticando il mio sport preferito: lo sci sulle nevi perenni allo Stelvio, presso una nota scuola di sci, famosa per la sua disciplina alpina a cui le famiglie potevano affidare i loro pargoli in tutta sicurezza.
Erano gli anni '70 ed i ragazzi ascoltavano ancora i genitori, quindi la disciplina funzionava.
Partivo in treno al mattino prestissimo, ancora notte, da Torino fino a Milano-Porta Garibaldi, io, i miei bagagli e i miei sci.
A Milano trovavo i pullman per lo Stelvio, ero sempre uno dei primi e mi sedevo nei primi posti. Partivamo verso le 7,00, il viaggio era lungo. Dopo un poco si arrivava a Lecco e da lì la strada costeggiava il Lago bellissimo nelle prime ore di luce finché si arrivava alle pendici della Valtellina, quindi a Bormio, poi sempre più su fino alla strada dello Stelvio che faceva paura.
Nessuno osava fiatare nel vedere la cabina del bus sporgersi nel vuoto ad ognuno dei tornanti, che erano circa una cinquantina o forse più, finchè verso mezzogiorno si arrivava al passo dello Stelvio, dove i bagagli proseguivano su di un furgone e noi in cabinovia a veder la neve. Giunti ai rifugi si pranzava con molto appetito, dopo in camera a disfare i bagagli per poi crollare in un bel riposino.

Allo Stelvio ricordo delle magnifiche sciate con i bravissimi maestri di sci che insegnavano con passione su una neve, soprattutto al pomeriggio, abbastanza difficile e pesante. Se imparavi a sciare su quella neve, d’inverno diventavi uno sciatore provetto, ed io frequentavo quella scuola proprio perché sognavo un giorno di diventare bravo, così bravo da meritare il brevetto da maestro di sci.
L’importante che io ogni estate mi trovassi in quel limbo, a 3.000 m. circa dove sembrava toccare il cielo color turchino intenso e limpido, l’aria così pura da far dolere le narici per la rarefazione.
Che quiete su quelle piste!
Suoni molto strani che l’aria meno densa trasformava; lo si notava dalle voci, decisamente diverse da quando le si ascoltavano in ambiente chiuso. Ricordo la luna, un plenilunio fantastico, sembrava fosse giorno. Infilatici gli scarponi e con gli sci a spalle percorremmo circa un km di pista, molto dolce. E quelle tre curve che riuscimmo a fare sembravano sul velluto in una luce surreale. Tornati al rifugio il Direttore in persona ci stava aspettando, rimproverandoci aspramente per la nostra imprudenza; non sapevamo che anche di notte il ghiacciaio poteva aprirsi. Infatti al mattino il maestro redarguendoci a sua volta ci portò a vedere un crepaccio apertosi la notte prima non lontano da dove eravamo passati noi e a quel punto sentimmo un brivido correre lungo la schiena. Ricordo quelle poche curve bellissime alla luce della luna come fossero un sogno.

Di giorno, il sole, molto forte, obbligava l’uso di forti creme anti abbronzanti, mentre l’aria frizzante faceva indossare un berretto di lana. Ma occorreva stare attenti. Una mattina non mi accorsi avere un lobo dell’orecchio scoperto e a mezzogiorno, quando tolsi il berretto per andare a pranzo, mi accorsi che era bruciato dal sole e già incominciava a dolere. Volevo darmi la crema, ma il maestro mi portò in cucina e con un uovo sbattuto nell’olio fece un unguento che era veramente un portento per quelle scottature da raggi UV.

Un pomeriggio, usciti dal rifugio per la lezione, osservammo degli atleti scendere in slalom, erano particolarmente in gamba. C’era tanta gente a guardarli. Vuoi vedere che… 
Sì era proprio la valanga azzurra, con Gustav Thoeni in testa.
Mi appostai vicino allo ski – lift. L’unica cosa che avevo in tasca era un fazzoletto con gli stemmi dello Stelvio comprati quella mattina. Lo estrassi ed appena arrivo Gustav gli chiesi l’autografo che lui mi concesse senza dire una parola. Ero così felice! Dovetti però scappare, stava iniziando la lezione… Inutile dire che quel fazzoletto ce l’ho ancora!
Per diversi giorni, finita la lezione andavo ad assistere all'allenamento degli azzurri. Ero stato veramente fortunato, a vederli sciare erano fantastici e Thoeni era sempre il primo in partenza, non si fermava mai. Quello si' che era uno spettacolo!
Un giorno mi appostai a fianco della pista per poyrtli osservare bene da vicino. Sciavano con una potenza impressionante, quando passavano sentivi un fruscio ed un vero e proprio spostamento d'aria, era veramente incredibile. Dopo pochi giorni gli Azzurri se ne andarono e noi ci reimmergemmo nella nostra realtà.

Ricordo che alla sera, quando si rientrava, la temperatura era scesa e tutto si stava ghiacciando dando una consistenza alla neve che avrebbe consentito di sciare molto bene.
Da quel momento al tramonto godevamo di circa due ore di luce.
Ebbi un’idea: perché non chiedere al maestro di portarci la sera sulle piste? Tornato in rifugio mi avvicinai ai compagni di classe, proposi l’escursione, costoro subito mi canzonarono. Quando li convinsi ad uscire, tastando la neve, mi diedero ragione. Da quel momento tutti desideravano una sciata di sera: difatti nei giorni successivi potemmo osservare che altri facevano l’escursione serale. A quel punto una bella mattina, sull’Ortles, davanti al ghiacciaio dello Stelvio, in un momento di calma, a nome di tutti feci la richiesta al maestro che per qualche istante si fece pensieroso poi ci rispose che per lui si poteva fare, ma bisognava avere il consenso della Direzione.
Per tutto il giorno non ci disse nulla, alla sera venne al nostro tavolo con un sorriso smagliante per comunicarci che all’indomani, si poteva fare, il Direttore aveva dato il consenso e, tempo permettendo, la gita era autorizzata.
Il giorno dopo, seguendo le istruzioni del maestro, ciascuno di noi riempi uno zainetto con un maglione in più, un passamontagna, guanti pesanti, calzettoni e un po' di cibo, leggero ma nutriente (cioccolata, uva passa mandorle e noci) da consumare solo su autorizzazione. In effetti il tempo in montagna, soprattutto a quelle quote, può cambiare improvvisamente ed il nostro zainetto era il nostro Kit di salvataggio. Depositammo gli zainetti nel gabbiotto di arrivo dello ski – lift e sciammo tutto il pomeriggio sul Nagler (un piccolo monte abbastanza ripido su cui si provava la gara che avremmo avuto la mattina del giorno dopo.
Intorno alle 17,30 ci avviammo verso un altro ski-lift per portarci nel punto più alto, il nevaio dello Stelvio prospiciente l’Oltlers, il severo ghiacciaio sotto le cui bocche avremmo sciato. Quando arrivammo in cima, sembrava di poter toccare la montagna glaciale, enorme, di un bianco candido, tanto da far apparire ciascuno di noi una minuscola creatura. Bisognava aver coraggio per sciare vicino al ghiacciaio; il maestro ci guidò a vedere un crepaccio poco distante, molto grande, formatosi come se qualcuno avesse tagliato il ghiaccio con un enorme lama. Guardando nello squarcio, sembrava una profonda caverna dalle pareti di color grigio - verde smeraldo, che incutevano timore. Tornando pensammo nuovamente al rischio corso in quella bella sciata notturna provando un’intensa emozione.

Il tempo era splendido, il sole ancora molto forte, ma stava calando. Per passare il tempo, qualcuno chiese cosa fossero quelle strisce che si vedevano sulla montagna di fronte e il maestro spiegò che si trattava di strade scavate dagli Alpini Italiani nella Prima Guerra Mondiale e che non molto lontano da lì, sull’Altopiano di Asiago, c’era stata una grossa battaglia in cui gli Austriaci avevano quasi sfondato. Lui proveniva proprio da Asiago.
Il tempo passava e intanto qualcosa impercettibilmente stava cambiando: il sole era sempre piu basso, la temperatura stava calando e la neve si stava rassodando.
Eravamo lassù da circa un’ora, quando il maestro ci disse di prepararsi e di non lasciare nulla sulla neve. C’era chi aveva freddo, allora tirò fuori una fiaschetta di grappa e ne offrì a tutti. Ci scaldammo, ci sentimmo subito meglio. Quindi ci spiegò.
“Adesso mettetevi in fila affiancati, verso la valle, come quando facciamo lezione. Io scenderò per primo, poi quando alzerò la racchetta, Voi scenderete uno per volta, cercate di seguire la mia traccia… Buona sciata!”.
Ci salutò e scese magistralmente, non l’avevamo mai visto sciare così. Nel silenzio sembrava volasse, portava il peso per un po' a destra, poi a sinistra, angolando l’anca, arrotondando le curve quasi come avesse un compasso incorporato, perfette, una uguale all’altra. Era uno spettacolo vedere quell’uomo oscillare leggermente puntando verso le bocche dell’Ortles. Dopo circa tre, quattro minuti il raggio delle sue curve si ampliò ed ad un tratto si fermò naturalmente, esaurendo lo slancio. Si rivolse a noi alzando il bastoncino.

I primi due discesero disciplinatamente al segnale, li guardai ammirato: anche loro sciavano bene poi toccò a me, con due colpi di pattinaggio mi diedi un leggero slancio, iniziai a sciare e cercai di concentrarmi, dopo pochi istanti compresi: quello che mi guidava era una profonda emozioni che mi provocava delle dolcissime sensazioni con cui muovevo il mio corpo... Ero immerso nel silenzio, avvertivo, quando impostavo la curva, il leggero fruscio degli sci che sfioravano la neve compatta, poi ricordai il maestro che diceva “catenare le curve…” con il suo accento un po' tedesco, ed allora finita una curva, ne incominciavo subito un'altra, lentamente, accarezzando la neve con dolcezza, scivolando leggero come una piuma. Preso il ritmo mi sentivo dondolare come un pendolo. Avrei sciato così in eterno ma presto arrivai in vista degli altri, allargai il raggio di curvatura e mi fermai per inerzia vicino a loro. Mi guardavano tutti e tre con un sorriso e il maestro mi disse: “Bravo, diventerai un buon maestro. Dipende solo da te”. Io mi commossi ed in quel momento giurai a me stesso che sarei diventato un maestro di sci.
Pian piano arrivarono gli altri quattro. Si era fatto tardi, incominciava a calare la luce, ma l’ultima fotografia la scattammo alla luna che strava sorgendo sul’Ortles. Quindi ripartimmo, tutti in fila a distanza di venti metri l’uno dall’altro scendemmo dietro il maestro girando come e dove voltava lui. Chiusi io la fila, se qualcuno fosse caduto avrei dovuto urlare. Io non potevo cadere perché nessuno se ne sarebbe accorto: il maestro aveva voluto così e mi disse: “Adesso sei il mio aiuto, impara!”.
Arrivammo al rifugio circa trenta minuti dopo, stanchi, ma entusiasti, alle ultime luci del tramonto, quasi al crepuscolo, quando giorno non è più e notte non è ancora.
Entrati ci sedemmo a tavolino per parlare della nostra avventura e lì potemmo assistere al filmato di noi tutti ripreso da un nostro compagno
che era sceso per primo. Lui lo filmò il maestro, poi il nostro compagno ci riprese senza farsene accorgere, così da farci una sorpresa. Guardammo il film sulla sua videocamera come in un caleidoscopio. Era la prima volta che mi filmavano e, grato, gli offrii da bere. Poi arrivò il maestro, si sedette al tavolo, fece i complimenti a tutti e ci regalò, da parte della direzione, un distintivo della scuola di sci che conservo gelosamente ancora oggi, dopo tanti anni. Non volle assolutamente nulla per la serata sull’Ortles, disse che quella sciata era il suo regalo perché noi ci ricordassimo di lui. Dopodiché ci toccò lasciarci per fare le valigie.

Il giorno dopo, la mattina ci fu la gara, che, come al solito, per la mia emotività, non riuscii a finire in piedi, consumammo il pranzo e poi subito in autobus: si tornava a casa. Lo Stelvio chiudeva i battenti per me quell’anno. Il bus su cui mi trovavo scendeva da quei tornanti terribili che il guidatore esperto eseguiva con perizia, la cabina a sbalzo nel vuoto perché era molto lungo.
Io ero assorto: pensavo alla mia promessa a me stesso.
Nella vita è molto difficile trasformare una passione in una professione, pochi ci riescono e io non ci riuscii.
Però le ore più spensierate e più belle le passai sugli sci, e di questo sono molto grato a quel maestro ed a tutti coloro che mi fecero amare lo sci e la montagna.

“Maroso”