Lo dico fin da subito: a me i Maneskin piacciono da impazzire.
Li ascolto in playlist da tempo e ho letteralmente divorato il nuovo album, a seguito del colpo di fulmine scattato con la pubblicazione del loro primo lavoro. Erano già abbastanza noti fin dal loro debutto discografico/televisivo, ma questo è stato l’anno in cui si sono consacrati al mainstream. Vincitori del Festival di Sanremo più particolare di sempre (come praticamente tutto in quest’ultimo anno e mezzo), vincitori dell’Eurovision Song Contest e, cosa più importante, nuovi elementi divisivi dell’opinione pubblica nazionalpopolare, tra chi li considera la nuova band rock per eccellenza e chi, al contrario, non riesce ad apprezzarli e li ritiene forzatamente esagerati. Ovviamente, quando si tratta di gusti musicali, è inutile sindacare. Se qualcuno non digerisce i pezzi tirati fuori da Damiano David e soci non si può obiettare nulla, così come non è ammissibile contestare chi trova i brani godibili. L’interrogativo che mezza Italia si sta ponendo in questo momento è il seguente: i Maneskin sono rock o no? Un dubbio amletico che, a parer mio, è davvero inutile porsi. Motivo? Banalmente, perché il rock è morto. Lo so, lo abbiamo sentito dire da sempre. Ogni generazione ritiene quella successiva sempre peggiore, sempre lontana dal vero gusto, in tutti i campi. Stavolta, però, la mia affermazione (mia si fa per dire, naturalmente) si poggia su basi più solide che la mera difesa di ciò che è stato e che mai più sarà. Attenzione, non parlo della musica, nel senso che avremo sempre bisogno di chitarra, basso e batteria e qualcuno riuscirà sempre in qualche modo ad offrirci questo gustoso mix che nessuna campionatura sarà mai in grado di sostituire. Parlo della funzione sociale del rock, sinonimo di ribellione, di capovolgimento del potere, di riscatto. Quello che abbiamo imparato a conoscere tanti e tanti anni fa. In questo senso, il rock non può avere più quel valore che aveva prima, ma non è una colpa, ci mancherebbe altro. È come dire che non bisognerebbe più scrivere romanzi fantasy perché tanto “Il Signore degli Anelli” è insuperabile: è ovvio che sia così, nulla potrà mai competere con l’opera più significativa di questo genere, ma non vuol dire che non ne possano essere prodotte altre interessanti (“Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco”, ad esempio).
La stessa cosa vale per il rock: dimenticate i grandi dischi prog, tenetevi stretti nella vostra personale collezione gli album dei Led Zeppelin (omaggio doveroso a Dart Fener), degli Who, dei Genesis e non pensate più di avere band che suonano nei locali underground per poi venire fuori. Non attendetevi più la rabbia genuina che scaturiva da un fervore tipico di quel periodo storico. Rimuovete le vostre speranze di innamorarvi al primo ascolto come quando accadde con “The Dark Side of the Moon” o di sentire gli stessi brividi che vi hanno accompagnato quando David Bowie ci spedì con la mente su Marte. Quello che è lecito attendersi è qualcosa di diverso. Qualcosa che faccia divertire, che riesca a inquadrare il presente pur rifacendosi a stili e sonorità di un’altra epoca. Questo è quello che io vedo nei Maneskin: esattamente quel tassello mancante che ci permette di fare pace con un genere ormai superato, ma che riescono a portare avanti adeguandosi all’attualità. Non potete chiedere a ragazzi nati alla fine degli anni ’90 di non avere i social network. Non potete contestare il fatto che siano partiti da un talent. Non potete gettare fango solo perché vanno ai grandi Festival e contest popolari. Quando il rock era tale, tutto ciò non esisteva. Le band si formavano dal basso, suonando dalla mattina alla sera davanti a poche decine di persone, se andava bene. Poi, si faceva la gavetta, ci si cominciava ad allargare e, per chi davvero riusciva a sfondare, si aprivano le porte dei grandi eventi e dei concerti stellari. Ora, non funziona così perché non è più possibile. Ora, serve essere presenti in digitale. Bisogna fare numeri, visualizzazioni, farsi notare. E lo so, anche a me non piace questa cosa, ma che colpa hanno questi ragazzi se Instagram conta più del Carroponte? Se il tour di presentazione del disco consiste in selfie e autografi, con una piccola coda di qualche pezzo strumentale? Se non esistono più i dischi di una volta perché sono troppo lunghi (mamma mia, mi ricorda la Superlega…)? Bisogna essere rapidi, arrivare dritti al punto. E i Maneskin, in questo, sono persino controcorrente (ascoltate “Coraline” dell’ultimo cd: altro che commerciale!). Ecco, in un momento in cui in Italia (e non solo) generi che poco hanno a che fare con la musica hanno il sopravvento (considerazione strettamente personale), vedere fuoriuscire questi ragazzi è semplicemente una buona notizia, piacciano o meno.

Ciò serve per spiegare questa sorta di snobbismo che i puristi pare facciano proprio: la band romana non può in alcun modo accostarsi a questa parola così forte e colma di significato. Qualcuno ammette che suonano come si deve, che il cantante ha una bella voce, ma no, non è rock. E quindi? Anche ammettendo che non fosse rock, cosa significa? Che non essendo rientranti in questa categoria non possono essere considerati eccezionali? I Beatles, per molti appassionati, non rientrano assolutamente in questa categoria di eletti. Qualcuno ha il coraggio di dire che non siano stati la band più influente dello scorso secolo e che non abbiano lasciato il segno nella storia (non solo musicale)? Stessa cosa per i Queen: in molti li inquadrano in un pop-rock, contenitore creato appositamente per identificare coloro che hanno successo ma senza lo stigma del genere di culto. E non parliamo dei giorni nostri: guai anche solo a provare timidamente a dire che i Coldplay sono rock. Sarebbe considerata una blasfemia. Che poi, parliamone, di rock: Madonna e Lady Gaga sono due esempi di personalità senz’altro pop a livello sonoro, ma qualcuno avrebbe da ridire sul fatto che siano qualcosa di strepitoso? Loro sono molto più rock di chi magari si smarrisce in assoli e virtuosismi senza sfogo. Le loro performance, la sperimentazione, la ricerca dello spettacolo le rende iconiche e io non avrei dubbi a definirle “rock” nel senso più ampio del termine.

La stessa cosa accade in Italia, soprattutto con i rocker più “popolari”: avete mai discusso con qualcuno amante del rock in modo viscerale e avete provato anche a solo ad accostare le quattro lettere magiche ai nomi di Vasco, Zucchero o Ligabue? Vi guarderebbero male, perché non si possono considerare tre “cantanti commerciali” come rock. Ma cosa vuol dire? Se riempi gli stadi non sei degno di essere rock? Avete mai sentito i dischi del Blasco fino a “Bollicine”? Avete mai ascoltato attentamente “Sopravvissuti e Sopravviventi” del Liga? Avete mai gustato lo Sugar nazionale agli albori? Sì, è vero, magari poi hanno ceduto qualcosa, ma come si può non definirli rock? Magari di questo ne parleremo un’altra volta…

Quello che voglio dire è che i Maneskin fanno rock e sono bravi. Un rock del 2020, non quello a cui noi siamo abituati. Il rock è morto con Nevermind dei Nirvana. Adesso abbiamo altro, abbiamo musica che riesce a salvarsi e a distinguersi da tanto piattume. A me piace, e sono contento di potermela godere. Per cui, mi spiace per chi ancora è ossessionato dalla domanda di partenza, ma questi ragazzi ci sanno fare. E a voi non tocca che stare “Zitti e buoni”. Con il massimo rispetto, naturalmente. O questa chiusura è poco rock?

 

Indaco32