Buongiorno, oggi torno a raccontarvi una nuova storia, dopo essere riuscito a contattare un signore che tra gli anni sessanta e settanta stava per diventare il nuovo fenomeno tra i giovanissimi, ma per una causa che poi andremo a leggere, dovette smettere e prendere un'altra strada.
Andiamo quindi ad ascoltare dalle parole dell'intervistato, come e cosa è successo nella sua breve ma intensa carriera calcistica e cosa poi l'ha fermato di colpo per poi sparire dai radar calcistici. Come sempre utilizzeremo la privacy sul nome, solo per cautelare la persona, che è tornato su questo argomento per lui chiuso proprio in quel periodo e mai riaperto se non oggi con questo racconto.

Sono Alfredo Brancoloni e sono nato il 10/12/1931 a Rio De Janeiro, ma italianissimo fino al midollo.
Mio padre Alfonso nel 1910 si trasferì in Brasile per lavoro, e conobbe mia madre Jadelina a Brasilia, e poi si trasferirono pochi anni dopo a Rio De Janeiro appena due anni dopo. Sono il quarto di quattro figli, e sono cresciuto a Rio dove ho cominciato a dare i primi calcio ad un pallone. Mio padre lavorava per una ditta petrolifica, mentre mia madre era una hostess e viaggiava molto. Abitavamo a due passi dallo stadio del Flamengo, dove in quei tempi giocavano Zizinho e Leonidas, due fuoriclasse eccezzionali.
Andavo spesso allo stadio con mio nonno materno, e la festa era davvero bellissima sugli spalti dello Stadio di Gávea, perchè sono sul finire degli anni 40 la squadra si trasferì definitivamente al Maracanà. In quegli anni seguivo i miei idoli e poi davanti casa ripetevo le loro gesta, e fu così che un giorno del 1941 mi presentai ad un provino per giovani stelle, dove c'era una selezione di centinaia di bambini, mettendo ben in chiaro che solo quelli che avrebbero convinto il presidente avrebbero preso parte ad altri provini. Alla fine superai ben 10 provini, prima di essere preso in considerazione e inserito nella squadra locale che avrebbe portato negli anni giovani alla prima squadra.

All'età di quattordici anni, quindi nel 1945, quando in Europa incombeva la Seconda Guerra Mondiale, ero stato chiamato dalla prima squadra per fare la preparazione, così con gli occhi sgranati guardavo quella maglia che campeggiava indosso ai tifosi e che non vedevo l'ora d'indossare. Il mio sogno fu realizzato soltanto pochi giorni dopo quando l'allenatore Marino Machado mi insegnò il ruolo che poi avrei dovuto ricoprire, l'esterno di centrocampo. La società aveva anche un pullman, non come quelli di oggi, dove la squadra saliva per arrivare a destinazione per le varie partite in trasferta. Ricordo che il giorno stesso che la squadra doveva incontrare in una amichevole il Santos, fui chiamato dal presidente in società, che mi consegnò la tuta della società, e che con grande emozione, e senza pensarci sù più di tanto, indossai appena una decina di minuti dopo.
La partita si sarebbe giocata la sera, il Brasile ha delle estati molto calde, quindi meglio giocare di notte. Feci il viaggio in pulmann al fianco di Zizinho, che mi spiegava, che l'emozione mi avrebbe potuto fare brutti scherzi, e mi spiegava di rimanere concentrato sul campo, facendo finta che intorno non c'era nessuno, soltanto un undici contro undici e niente più. 
Arrivammo allo stadio Vila Belmiro, come mi aveva ben spiegato l'allenatore, sarei partito dalla panchina, da dove avrei imparato e carpito ogni movimento del titolare, che poi avrei sostituito alla fine del pimo tempo. Restavo fisso sull'esterno anche quando questi non aveva il pallone tra i piedi o che non entrava nell'azione.
Il primo tempo terminò con il nostro vantaggio di una rete, segnato dal bomber Leonidas, davvero impressionante. La maglia che indossavo aveva il numero 16, entrai alla carlona, diciamo che il pubblico era davvero chiassoso, canti e fischi, ma era davvero una bella emozione per me che fino al giorno prima avevo giocato soltanto nel mio quartiere e davanti a non più di una ventina di persone. Così iniziò il secondo tempo, Zizinho muoveva il capo, come a dire "Ti ricordi quello che ti ho detto?", e io in quell'istante ero come un cavallo delle carrozzelle romane, avevo il paraocchi per non vedere nient'altro che quella fascia. Avevo una buona corsa, certo non eccelsa, ma non spingevo troppo per paura di finire il fiato e poi non riuscire a proseguire a lungo la gara. Non fu facile, anche perchè il loro esterno era davvero veloce, quindi oltre ad incunearmi negli attacchi, dovetti anche spingere per rientrare, alla fine ero più un esterno a tutto campo che un solo esterno di centrocampo dalla metà in su. Ecco quindi che la partita terminò sullo stesso risultato del primo tempo, ma ebbi ottime impressioni dalla squadre e dal tecnico, che mi portò anche nella seconda gara appena due giorni dopo, che giocammo contro il Saò Paulo nel nostro stadio, in quella gara fui messo titolare, maglia numero 8 e riuscii addirittura a segnare una rete, fu davvero bellissima l'esplosione della gente alla mia rete, mi sentivo parte di loro anche se ero stato io l'artefice della rete.
Così a fine gare, mi trovai in contrasto con quel giocatore al quale avevo preso il posto, addirittura mi disse da farmi da parte, che quel posto era il suo e non avrebbe mai accettato di perderlo ai suoi danni, ma feci finta di niente, forse la rabbia dentro questi era perchè aveva il terrore che un ragazzino di 14 anni potesse davvero rubargli la sua titolarità.
Ecco che un pomeriggio, mentre ero intento ad andare ad allenarmi, mi si affiancano due ragazzi, che cominciano a spintonarmi e dire parole non del tutto belle verso la mia famiglia, io tento di respingerli, ma insistono e mi dicono che devo lasciare la squadra perchè altrimenti me l'avrebbero fatta pagare. Ma io continuai la mia strada, e andai all'allenamento, e la domenica ci trovammo davanti ad un'altra grande squadra brasiliana, il Botafogo. In questa gara, per paura, devo ammetterlo, chiesi all'allenatore di partire dalla panchina, ma questi non volle sentire ragioni, e mi disse che sarei stato il titolare. E così, con lo sguardo che tentava di scrutare se quei due erano tra i tifosi, feci la mia gara, ma il pensiero era sempre nelle parole che mi avevano rivolto pochi giorni prima. Quando terminò il primo tempo, l'allenatore mi chiese cosa mi turbava, e io risposi che non c'era nulla di preoccupante. Così mentre dagli spalti qualcuno chiedeva la mia sostituzione, l'allenatore continuò a farmi giocare.
A fine gara, mi dovetti di nuovo scontrare con quel giocatore, stavolta la discussione la videro anche i tifosi. Così quando uscii dallo stadio, in direzione casa, mi si pararono in una vietta quei due loschi, ma non solo, perchè nel voltarmi per scappare, dietro c'erano altre persone, e così venni picchiato, e alla fine venni colpito da qualcosa talmente forte sulle gambe che mi portò un dolore lancinate. Fuggirono, e io mi trovai in preda a urla e dolori fortissimi. Così una signora che era di passaggio, chiamò un'ambulanza, e venni portato in ospedale. I miei genitori ebbero la notizia da un compagno di squadra. Quando mi risvegliai, dopo l'operazione, il chirurgo mi disse che si era spezzato l'osso della tibia, e che difficilmente sarebbe tornato tutto come prima. Mi fecero tante di quelle domande, alle quali risposi "Sono scivolato e poi non ricordo più nulla", ma nessuno mi credette. Così mio padre, che aveva mangiato la foglia (capito tutto), appena mi ripresi mi mise su un aereo verso l'Italia, dove vivo tutt'oggi in località Cinisello Balsamo, dove ho cominciato a lavorare come fattorino e continuare gli studi nel quale poi conseguii prima il diploma in economia e commercio per poi laurearmi in Archeologia e culture del mondo antico, che mi ha portato in giro per il Mondo e dove oggi sono un conosciutissimo archeologo di fama internazionale.
In Italia mi sono formato una famiglia, con Dorotea che conobbi nel 1960 e dalla quale ho avuto quattro figli, tre maschi e una femmina. In Brasile non sono più tornato, anzi, ho atteso il ritorno di mio padre nel 1950, quando andò in pensione. Oggi faccio la vita del pensionato, e nessuno immagina che sono brasiliano, anche perchè mi sono sempre detto italiano, parlo il milanese come uno che ci è nato, anche perchè i tratti somatici li ho presi tutti dalla parte di mio padre, che oggi è un novantenne ancora pieno di vita, e mia madre di qualche anno più giovane, che intraprendono ancora viaggi in posti paradisiaci. Io mi vivo la vita di città, mi piace camminare in compagnia e anche da solo.
Cosa voglio ricordare della mia giovane carriera? Bhè che ho indossato la maglia del Flamengo, che ho sentito i tifosi esultare ad un mio gol, e che mi resterà sempre nel cuore quella breve esperienza con un pallone al piede e una società che credeva fortemente in me. Di quel giorno? Non cancellerò mai nulla, anzi se ci penso ho ancora le immagini vive, ma a distanza di anni li ho perdonati, perchè da credente se Dio perdona tutti, anche io da suo credente l'ho fatto e continuerò a farlo finchè avrò vita.

Non mi resta che ringraziare Alfredo per essere tornato a quel periodo che da una parte lo ha reso felice d'indossare con onore la maglia della sua squadra cittadina, con il quale ha affiancato giocatori del calibro di Zizinho e Leonidas, per chi non li ha mai sentiti nominare ci sono anche dei documenti che fanno capire chi erano.