Oggi torno dopo tantissimo a raccontarvi le storie reali di persone che hanno vissuto un tempo in cui io non c'ero, ma che grazie ai racconti degli stessi interessati sono venuto a conoscere. Oggi vi scriverò il racconto di Alfredo Poglietti, come al solito nome di fantasia per privacy, conosciuto da tutti come 'Alfredone'. Quindi non ci resta che ascoltare dalle sue parole il racconto della sua vita fino all'arrivo al calcio.

Mi chiamo Alfredo Poglietti, nato a Roma il 20/10/1950. La mia famiglia era ricchissima, ma che dico ricchissima, vivevo nell'oro più assoluto. Mio padre Alfio mio padre era il proprietario di una miniera africana della provincia di Copperbelt in Zambia. Ero il quarto di quattro figli, il cocco di casa, il preferito dei miei nonni. Non andavo a scuola, avevo i maestri che venivano a casa, quindi in un istituto che siano state scuole elementari, medie o superiori, io non ci sono mai entrato. Mi piaceva studiare, avrei voluto ripercorrere le orme di mio padre, ma c'era qualcosa che mi attraeva di più, ed era il pallone.
A 10 anni, mentre mio padre era partito per l'Africa, io ero con mia madre Adelina a casa, e dalla finestra della nostra villa, vidi un gruppo di ragazzini giocare al calcio. Io non uscivo molto, e se lo facevo era solo con i miei genitori, alla fine avevamo ettari e ettari di terreno intorno e qualsiasi cosa volevamo; Altalene, scivoli, campo da tennis e campo da golf, ma a meno di 10 anni cosa si poteva voler di più. Io e i miei fratelli, eravamo tutti maschi, giocavamo a tutto, ma non a pallone, perchè mia madre non voleva che ci facessimo male, per questo aveva vietato di introdurre un pallone in villa. Così quel giorno affacciato alla finestra, decisi di scendere di corsa, aprire il cancello, e unirmi a quel gruppo di ragazzini per giocare a calcio, anche se non ero visto di buon occhio, tanto che appena uscito dissi "Ciao posso giocare con voi?" e loro guardandomi risposero "Certo, ma non vestito così! Servono un paio di pantaloncini e una maglietta a mezze maniche", e già mia madre mi faceva stare sempre in tiro, e così tornai in casa, e presi una canottiera e un paio di pantaloncini, e corsi in strada, socchiudendo il cancello senza fare rumore.
Così dopo essermi presentato, iniziai a calciare il pallone; una, due, tre volte, venni raggiunto dai miei fratelli che si unirono al gruppo, anche se il nostro sguardo era spesso rivolto alla porta di casa. Ridendo e scherzando sul come non eravamo capaci di calciare il pallone, anche se non avevamo detto di non averci mai giocato, ecco la fatidica domanda di uno di loro "Ma questa è casa vostra?" tenendosi alle sbarre del cancello, con lo sguardo perso in ogni angolo della nostra tenuta "Si è casa nostra, e dietro ci sono altre cose; le altalene, lo scivolo, un campo da tennis e un campo da golf" risposi, ma rincararono la dose "Beati voi, noi abitiamo dentro delle catapecchie, magari avere una casa così bella...", e un altro "Quindi siete ricchi?", e mio fratello Archimede rispose "Noi no, mio padre è ricco!", e gli disse della miniera e di tutto quel che che faceva, anzi che non faceva essendone proprietario. Poi se ne andarono via correndo.
Mentre eravamo intenti a rientrare, ecco che sbuca fuori mia madre "Ma dove stavate! Chi vi ha detto di uscire? Siete tutti sporchi, subito dentro la vasca! Voi non dovete uscire in strada che vi rapiscono!". E già vivevamo nel terrore, mia madre era fissata e ci aveva inculcato la storia dell'uomo nero, e di persone che ci avrebbero rapito per chiedere soldi a mio padre, quindi rimase tutto così fino all'età di 13 anni, quando decisi di farmi iscrivere ad una scuola vera e propria, e così entrai al Liceo Classico Statale Giulio Cesare, così da avere una vita normale come tutte le altre persone. Là conobbi Marta, la mia fidanzata, al quale però non avevo mai detto di provenire da una famiglia più che benestante, ma coprìì spesso questo fatto, dicendogli che abitavo vicino la Stazione Termini, tanto che l'accompagnavo a casa, lei era proprio di Corso Trieste dove si trova il Liceo, e poi salivo su un autobus salutandola, mentre alla prima fermata scendevo e salivo nell'auto del magiordomo di casa che mi riaccompagnava a casa. Così cominciai con i compagni di scuola a parlare di calcio, fino a quando un giorno in quattro non decidemmo di presentarci ai provini per la Roma. Io non avevo mai giocato al calcio vero e proprio, ma ebbi la fortuna d'incontrare là un caro amico di mio padre, che non era ne ricco ne povero, una via di mezzo.
Entrai in campo, ci fecero indossare gli indumenti d'allenamento, e partimmo con la corsa. Non avendo mai calcato un terreno di gioco, dopo poco cominciai a sentire il classico dolore alle gambe, soprattutto nella zona degli stinchi e polpacci. Così la prima domanda dell'allenatore fù "Poglietti da quanto tempo non giochi a pallone?", io risposi falsificando la verità "Ho avuto un infortunio e sono rimasto fermo per un anno", sapevo che non avrebbe replicato a tale frase, e non lo fece. Così il preparatore dopo la corsa mi disse "Nome?", io "Alfredo!", e mi prese le misure; Altezza 1,80, peso 80, fiato buono, corsa....lasciamo stare..."Sei grosso Alfrè, quindi da oggi sarai Alfredone per tutti!".
Ecco che quel soprannome nei giorni divenne fisso, non c'era giorno in cui non mi sentivo chiamare così. Intanto gli allenamenti si continuavano a intensificare, ma guai a dirlo a casa, dove raccontavo che c'erano delle Assemblee a scuola, che si presentavano il Presidente della Repubblica, e vari politici nei giorni in cui mi allenavo, e che sarei tornato a casa più tardi, mentre passavo tra gli allenamenti e casa di Marta. Così, dopo essermi stato assegnato un ruolo predefinito, Stopper, per la mia stazza, mi dissero che da li a breve ci sarebbe stata una amichevole con la prima squadra, e che dovevamo portare almeno un genitore a vedere la partita. Così arrivò il giorno prima della partita, e dovetti dire a mia madre che avrebbe dovuto venire a vedere la partita, mentre lei non sapeva nemmeno che giocavo al calcio. E così entrando nella sua stanza dissi "Mamma devo dirti una cosa, ma giurami che non ti arrabbierai...", e mia madre mi disse "Hai preso un voto basso a scuola?", scossi la testa "No, le assemblee scolastiche, il Presidente della Repubblica e i vari politici, in questo tempo non sono venuti a scuola. Io nel dopo scuola andavo a casa della mia fidanzata e a giocare a calcio", mia madre mi gelò con uno sguardo "Mi hai coperto tutto questo? ", poi "Sono contenta a metà, perchè se ti sei fidanzato è giusto, ma poi è del nostro stesso rango sociale? Altrimenti sai che dicono..." così la stoppai subito "Mamma, a me non interessa che lei sia ricca o meno, può essere anche la più povera del Mondo, ma io la amo, e questo è quello che conta", poi proseguì "Ma al calcio no! Tu sarai l'ereditiere di tuo padre, così come i tuoi fratelli. A te non serve giocare, tu devi pensare solo allo studio, anche se poi non ti servirà, perchè hai già il tuo lavoro quando tuo padre andrà in pensione, quindi smetti subito di giocare al calcio!", io invece risposi "Non solo non smetterò di giocare, ma devi venire con me al campo, dove giocherà contro la prima squadra della Roma!".
Così dopo aver ascoltato le mie parole, e acceso la sua immancabile sigaretta affacciandosi alla finestra, mi disse "Il campo dove sta?", ed io "Allo Stadio Olimpico". Così gli proposi di vestire 'normale', visto che gli spiegai che nessuno sapeva che famiglia avevano e che abitavamo vicino alla Stazione di Termini. Mia madre così decise non solo di vestire normale, ma di prendere addirittura la sua auto, un'Alfa Giulia cabriolet, rossa fiammante, e via fino allo stadio Olimpico di Roma, era una giornata abbastanza fredda, era in Dicembre, ed entrammo così allo stadio, mia madre non disdegnò del miglior posto, in Tribuna d'onore, a pochi seggiolini dal presidente Franco Evangelisti, mentre in Curva c'era la mia Marta, con il pugnetto alzato che mi mandava baci.
Ero pronto, certo avrei dovuto tenere un attaccante fortissimo, José Ricardo da Silva, a soli 15 anni, quindi potete capire...anche se dentro avevo una carica davvero importante. Lo stadio era gremito, e avevo la pelle d'oca per il vociferare che si sentiva intorno. Ecco quindi che entrammo in campo prima noi, in tranquillità, un breve applauso, poi il plebiscito all'entrata della prima squadra. Così dopo l'entrata dell'arbitro, la partita ebbe inizio. Portavo la maglia numero 3 sulle spalle, ero carico come non mai, tanto che alla prima occasione mi feci sentire sull'attaccante brasiliano, che alzandosi mi puntò il dito ad un centimetro dal naso e a dire parole che non comprendevo, forse imprecava in brasiliano, ma avevo capito che me le stava promettendo se avessi fatto di nuovo tale entrata.
La partita fu più un allenamento per loro, anche se non ci facemmo sottomettere per nulla. Seguivo l'allenatore in ogni suo parola, e in ogni spostamento che avrei dovuto fare, ero concentrato, e lo stadio non sentivo più nessuno. Riuscii addirittura a sfiorare un gol, nella ripresa, un cross dalla bandierina, e svettai sulle spalle del mio avversario, se non erro era Carpenetti, colpendo di testa, la palla passò sul palo sinistro del portiere e uscii sul fondo.
La gara terminò 0-0, e se loro stavano più che bene, noi eravamo distrutti, ciondolanti, avevamo dato tutto e di più. Così uscendo dallo stadio incontrai sia mia madre che Marta vicine che chiacchieravano, e speravo che l'avesse accettata sopratutto che non gli avesse detto nulla, invece...Marta per prima cosa mi diede uno schiaffo in faccia, non era forte, ma lo avevo sentito come se mi fosse arrivato una pala a tutta forza "Perchè non me l'hai detto prima?", io risposi "Non volevo metterti in difficoltà, e non volevo passare dal riccone di turno". Poi mi abbraccio, anzi facemmo un abbraccio generale in tre, e mi sciolsi in lacrime, la bacia e mia madre si voltò con la mano a coprire gli occhi, "Marta io ti amo! Vuoi sposarmi?", mia madre rimase senza parole, mentre Marta mi rimase bloccata "Marta! Hai capito che ti ho detto?", e lei "Ma io...accetto!".
A 15 anni, cosa che oggi si è poco più che ragazzini, decidemmo di fretta di sposarci.
Mio padre tornò pochi giorni dopo, e il 20 Dicembre 1965 ci sposammo, appena 5 mesi dopo mia moglie rimase incinta del nostro primo genito, Flavio. Decisi di non seguire le orme di mio padre, così come fecero i miei fratelli, e decisi di aprire una rivendita di auto, anche se a nome di mio padre, dove da appassionato di auto, spiegavo come funzionavano e i confort che avevano.
Intanto continuavo a giocare nella Primavera della Roma, anche se preferivo stare più vicino alla mia famiglia che su un campo.
Crescevo sia come padre che come calciatore, in campo sputavo sangue, mentre nella vita sprizzavo di felicità, anche perchè nel 1967 nacque la mia secondo genita Lea. La prima squadra non chiamava, e decisi così di ritirarmi dal calcio.
Nel frattempo, tra tante felicità, arrivò la mazzata nella mia famiglia, mio padre non solo si era venduto la sua miniera, ma si era sperperato tutti i suoi soldi nel gioco, nei cavalli, e aveva lasciato la famiglia con debiti, che dovette ripagare con i suoi risparmi, dovettero lasciare la super tenuta dove eravamo cresciuti noi figli, e dovettero prendere una casa in affitto, ma mia madre non lo lasciò, l'amore superava anche la bella vita. Oggi sono un pensionato, dopo ben 50 anni di autosalone, e una vita più che normale con moglie, figli e nipoti, vivendo in mezzo al popolo come avrei voluto vivere fin da ragazzino.

Non mi resta che ringraziere Alfredo 'Alfredone' Poglietti, per il racconto della sua vita calcistica. E spero che vi siate goduti il racconto.