Se dici Pedro Waldemar nessuno sa chi sia. Ma se dici Piedone, nella Capitale ancora lo ricordano tutti. È il soprannome di uno dei più prolifici attaccanti nella storia della Roma, Pedro Manfredini. Talento, concretezza, grande vena realizzativa. Sono le principali qualità che contraddistinguono il centravanti che viene nel nostro campionato alla fine degli anni ’50. Quello stesso campione che oggi compie 83 anni.

NASCE infatti a Maipù, piccolo villaggio vicino a Mendoza, il 7 settembre 1935. Mendoza è in quella parte di Argentina che si contrappone in termini non soltanto geografici alla Grande Buenos Aires. È un luogo quasi di confine con le Ande cilene. Una città incantevole e ordinata di 1 milione di abitanti, in cui la prima fonte di sostentamento è l’agricoltura e che gli italiani (in particolare veneti e piemontesi) hanno fortemente contribuito a popolare nei secoli. Il giovane Pedro Waldemar, nonni paterni di Cremona e materni di Bisceglie, comincia a giocare nella squadra del suo paesino. Lo allena Raimundo Orsi, l’oriundo campione del mondo 1934 con la maglia Azzurra. “Orsi – dice Manfredini - è stato per me praticamente un padre, oltre che un allenatore prezioso, e sarà proprio lui a segnalarmi al Racing de Avellaneda anni dopo. Devo a lui l’avere imparato per bene i fondamentali e la precisione nel tiro. Il carattere non me lo ha rafforzato, quello già ce l’avevo”. Per essere una punta, il ragazzo ha piedi buoni, sa trattare il pallone in modo egregio, ma quando è in campo bada poco alla forma e va dritto all’obiettivo. E l’obiettivo per lui è uno solo, il gol. Nel Deportivo Maipù ne fa talmente tanti che a 1000 chilometri da lì c’è chi un giorno si accorge di lui. Ha poco più di 20 anni, Pedro Waldemar Manfredini, quando esordisce nella massima serie argentina con la maglia del Racing de Avellaneda, mitica squadra della periferia di Buenos Aires. Due campionati straordinari, 29 gol in 39 partite. Campione d’Argentina e capocannoniere nel 1958 con 19 realizzazioni. “El Cilindro” (oggi Estadio “Juan Peron”), lo stadio del Racing, impazzisce per lui.

IL SEGRETO DEI SUOI PIEDI. C’è una scena del bellissimo film argentino, distribuito anche in Italia, “El secreto de sus ojos” (Il segreto dei suoi occhi) che cita apertamente Pedro Manfredini come l’archetipo di un giocatore pagato poco e di altissimo rendimento. “Che soddisfazione! Ero felicissimo di questo. Tra l’altro, nei giorni in cui giravano ‘El secreto de sus ojos’ mi trovavo a Buenos Aires. A forza di sentir parlare di me, l’attore protagonista (Ricardo Darìn, nda) mi volle conoscere a tutti i costi. Assistetti così a parecchi ciak di quel film. Sono davvero orgoglioso di quella citazione”. Non è alto ma di testa ci arriva. Non sarà potentissimo sul piano fisico ma marcarlo è un problema per chiunque. Non avrà molti capelli in testa ma è giovane e vale tanto. Ma soprattutto, è uno tosto, uno che non molla mai. E per quelli come lui, presto o tardi le porte della Nazionale si aprono. È l’estate del 1959 e la “Albiceleste” vince la Copa America grazie anche a una sua doppietta nella partita iniziale, contro il Cile. Un anno d'oro, il 1959, per Manfredini. Proprio allora si sposa con la Ana Maria, una bella ragazza della Capital Federal. Ma quando tornano a casa dalla luna di miele, lui riceve una chiamata senza preavviso: «Pedro, ti ha acquistato la Roma» gli dice il presidente del Racing. “Ero appena tornato dall’Uruguay, con Ana Maria avevamo appena finito di arredare la nostra nuova casa e subito mi arriva questa telefonata. Al Racing, che non era in buone condizioni economiche, andarono quasi 80 milioni di lire di allora e per loro fu una vera boccata d’ossigeno. Nello stesso tempo per la Roma era un prezzo elevato ma ancora conveniente. Insomma, fu un affare per tutti. Grazie alla segnalazione di un osservatore, il presidente Anacleto Gianni riuscì così a portarmi nella Capitale”.

ARRIVA A ROMA il 22 giugno del 1959. Non lo conosce ancora nessuno ma a Fiumicino sono in molti ad attenderlo. “Fu un viaggio allucinante – ricorda Manfredini, come se fosse oggi – 28 ore di viaggio con 11 scali. Viaggiare in aereo senza soste intermedie era a quei tempi un privilegio di pochissimi. Oggi, se voglio, viaggio con i pantaloni corti e le ciabatte, non me ne frega nulla, ma allora dovetti presentarmi alla stampa vestito di tutto punto e con le scarpe inglesi. Al termine di quel viaggio ero distrutto”. Esordisce in giallorosso alla quarta giornata. Trova in squadra Alcides Ghiggia, la grande ala uruguagia. È l’11 ottobre 1959 e quella domenica si gioca in casa della Fiorentina. La Roma perde 3-1 ma ci vogliono 5 minuti per assistere al primo gol in giallorosso di Piedone. Si è sparsa la voce che abbia piedi enormi, ma in realtà non è così. La colpa, se così vogliamo definirla, è di un fotografo che lo immortala dal basso verso l’alto mentre il neoacquisto scende le scalette dell’aereo che lo ha condotto per la prima volta nella Capitale. Quell’immagine crea una leggenda metropolitana smentita anche dal diretto interessato. “Ma quale Piedone, figuriamoci, porto il 42. Fu quella foto a ingannare tutti. Poi un giornalista del Momento-Sera mi mise quel soprannome e Piedone mi è rimasto attaccato addosso come una ‘segunda piel’, una seconda pelle. Non mi sono mai offeso perché era detto con tono affettuoso, ma ancora oggi a Ostia mi chiamano tutti Piedone, mica Pedro”. In realtà Manfredini arriva in Italia con un ginocchio in disordine, e la parola disordine equivale a un eufemismo. “Se vedete le mie foto di allora, giocavo spesso con una ginocchiera. Ora convivo con una protesi nell'articolazione, mi sono dovuto operare ma credo che dovrò tornare al più presto sotto i ferri”. Quel problema ha un nome e un cognome: Jorge Bernardo Griffa, oggi osservatore e scopritore negli anni di talenti come Batistuta, Balbo, Valdano e Tevez.

IL FATTACCIO avviene proprio a Mendoza nel 1956 durante una partita contro il Newell’s Old Boys. “Griffa mi arrivò da sinistra, fece un'entrata come quella di Goicoechea con Maradona. Si giocava di pomeriggio, potei lasciare lo spogliatoio soltanto a mezzanotte, ero devastato. Ma anche lui uscì tardissimo, perché i miei parenti lo stavano aspettando. Lo volevano ammazzare. Fu un fallo intenzionale e cattivissimo”. Menisco in briciole, legamenti lesionati. “A quei tempi non era come adesso, che si opera tutto e in fretta. Griffa non mi ha mai chiesto scusa. Fu un episodio che mi ha rovinato la vita”. Per questo motivo, a Roma Manfredini fa quattro ottimi campionati, finché la condizione fisica lo sostiene. E si toglie belle soddisfazioni, individuali e di squadra. Nel 1964, per esempio, vince la Coppa Italia. Il giorno prima del suo 29esimo compleanno vorrebbe farsi un bel regalo ma il 6 settembre di quell’anno la finale con il Torino resta ferma sullo 0-0. Bisogna attendere addirittura il giorno dei santi per assegnare il trofeo. Nella “ripetizione” la Roma espugna il Comunale grazie a un gol di Nicolè nei minuti finali. C’è grande soddisfazione tra i giocatori, ma non è la prima volta che Piedone e i suoi vincono qualcosa. Nel 1961 la Roma è la prima squadra italiana a fare suo un trofeo internazionale. È la Coppa delle Fiere. Non si tratta, come qualcuno erroneamente sostiene, dell’antesignana della Coppa UEFA (l’UEFA stessa non la riconosce ufficialmente come tale). In ogni caso, una Coppa riservata alle squadre europee delle città fieristiche è motivo di una certa visibilità a livello internazionale. Manfredini è il capocannoniere di quell’edizione con 12 gol (record insuperato), per poi ripetersi due anni più tardi nella stessa competizione europea con 6 realizzazioni (a pari merito con Waldo Machado, brasiliano del Valencia). Il bomber argentino è capocannoniere anche in serie A. Al termine del campionato 1962/63, con 19 reti all’attivo, nessuno avrà fatto meglio di lui. Nessuno tranne Harald Nielsen, capocannoniere ex-aequo. Con il campionato successivo, i problemi al ginocchio riprendono a farsi sentire ed è l’inizio della parabola discendente. “L’impegno era lo stesso di sempre, ma la condizione non mi sosteneva più. Da quel momento i problemi di articolazione sono peggiorati. Per fortuna ho avuto tanta comprensione intorno a me”. Per un bomber come lui, 8 gol in 2 anni sono una miseria. Alla Roma non resta che cercare l’acquirente.

LO VENDONO al Brescia nell’estate del 1965, ma l’avventura lombarda dura soltanto un anno: 8 presenze e un unico gol segnato. Chiude la carriera nel Venezia, seguendo i Lagunari anche in serie B. Pedro Waldemar Manfredini, conosciuto come Piedone si ritira nel 1968 con 81 reti segnate in serie A e una in B. Oggi, dopo avere gestito per anni il “Bar Piedone” di Piazzale Clodio e avere vissuto a Roma nel quartiere periferico di Spinaceto, ora risiede a Ostia. La figlia e il genero gestiscono un noto stabilimento balneare e per chi va in spiaggia non è difficile vedere alla cassa un signore, attempato ma fiero, con un accento inequivocabile e somigliante come una goccia d’acqua a un certo campione argentino che faceva tanti, bellissimi, gol su tutti i campi d’Italia. E guai a provocarlo sul calcio, Pedro, pardon Piedone, può ancora essere letale. Da bomber vero qual è stato per anni.

Diego Mariottini