Robin Hood e Little John stan nella foresta… Così cantava il menestrello nel famoso film Disney dedicato alla famosa figura del nobile ladro d’Inghilterra. Una leggenda storica che da bambino amavo alla follia, tanto che ricordo di aver fuso almeno due videocassette del medesimo film, a forza di farle andare nel videoregistratore.
Una leggenda inscenata nella stupenda Foresta di Sherwood, raggiungibile da Nottingham con appena un’oretta di macchina. Ed è proprio da questa meravigliosa cittadina, che si trova proprio nel cuore della Gran Bretagna, che questa storia comincia

Passeggiare per le sue vie è straordinario. In essa si rivivono epoche differenti, un miscuglio di storie e leggende che parlano attraverso la voce del vento, il fruscio degli alberi, lo scricchiolio delle pietre sotto i nostri piedi. Persino le sue statue e i suoi monumenti paiono parlare. Una di queste, un pezzo unico di semplice bronzo, per quanto possa essere semplice, ha invece molto da raccontare.
La statua di un uomo che solleva le mani giunte, in segno di vittoria. Perché di vittoria e leggenda questo uomo ebbe la fortuna di vivere. Un uomo che nella piccola Nottingham fece rivivere, a suo modo, la favola di Robin Hood in chiave calcistica.
Era infatti il 1975 quando l’arcigno, a volte persino pomposo, Brian Clough assunse l’incarico di nuovo trainer della squadra cittadina. Da quelle parti, Brian era ben conosciuto, dato che aveva guidato per diverso tempo, e con successo, una delle due squadre cittadine, ovvero il Derby County. Con il Derby, Clough aveva fatto cose grandiose. Da misero club di terza categoria, lo portò a vincere in poco tempo la massima competizione della nazione.
Ma Brian era anche famoso per quel suo caratteraccio, quella spocchia da tipico britannico del nord, nonché il desiderio di sconfiggere su tutti i campi la sua nemesi, il suo personale Principe Giovanni Senza Terra, Don Revie. Fu per questo che, dopo essersi dimesso in malo modo dal Derby County, se ne andò al Leeds United, per bissare i conseguimenti raggiunti dal suo acerrimo rivale. Ma come dice John Ruskin, la presunzione può gonfiare un uomo, ma non lo farà mai volare. E infatti, purtroppo per lui, l’esperienza fu terribile. Dopo appena 44 giorni, passati tra l’altro senza l’aiuto del suo personale Little John, il fido assistente e scout Peter Taylor, venne buttato fuori. Un fallimento tremendo, che per portò Brian a riappacificarsi con il caro vecchio Pete, nonché a ricominciare proprio da dove aveva iniziato. Da Nottingham, ma questa volta sull’altra sponda della città. Fu proprio dalla panchina del Nottingham Forest, che la leggenda di Robin Hood tornò a brillare. Proprio lì, a pochissime miglia dalla foresta di Sherwood, dove la leggenda di Sir Robin di Locksley trovò la sua origine. Fu infatti in quel già citato 1975 che Clough e Taylor, Robin Hood e Little John del XX secolo, presero una squadra orbitante nella Second Division, la Serie B inglese di allora, e la portarono dove nessuno avrebbe mai potuto immaginare. Dalle stalle alle stelle, dice la Bibbia. E così fu. Promozione in First Division, Scudetto, due coppe dei campioni consecutive. Tutto questo fece il magico duo. E lo fecero in una cittadina situata nel cuore d’Inghilterra, in appena 5 anni.
La leggenda era tornata a vivere e a far sognare. 

Le leggende, in quanto tali, sono destinate a rimanere immortali. Esse ogni tanto tanto ritornano a rivivere, a ricordare ai mortali che i sogni non sono mera materia astratta. Che se anche è la fredda logica a farlo funzionare, la reale materia di cui questo universo è fatto è la medesima di cui sono fatti gli stessi sogni. Le leggende ci ricordano tutto ciò e ci narrano, in una lingua morta e sconosciuta, storie fatte di pathos, di emozioni estreme, di una narrazione incalzante che toglie il fiato. E le leggende, tanto quanto le fiabe, sono per coloro che possono ancora sognare. Che non si soffermano al probabile, al calcolabile, ma vanno oltre, superano i limiti della fisica e della statistica, abbattono i muri del ragionevole. Per questo le favole sono per i bambini e per le piccole realtà. Sono per coloro che ancora hanno la forza di non farsi corrompere dal realismo, che hanno ancora desiderio di sognare e usare i propri sogni per modellare questa realtà. Persone che nutrono speranze immortali. Storie meravigliose che, esattamente come la compagine guidata da Brian Clough decenni fa, scaldano il cuore e riattizzano la passione. Brian Clough, che portò una cittadina di provincia sul tetto di Europa.
Brian Clough che, proprio come Robin Hood, rubò ciò che solitamente spetta alle società più ricche, per darlo a una “povera”.
A leggere storie simili mi emozionò ogni volta.
E ancor di più lo faccio oggi, dopo aver visto con i miei occhi l’impresa della piccola Atalanta. Un conseguimento clamoroso, inaspettato, insperato, inatteso. Chi mai avrebbe potuto immaginarlo, alla vigilia di questa importante competizione? Chi avrebbe mai potuto pronosticarlo, quando già la semplice qualificazione alla Champions appariva a tutti come un miracolo? Non fu un miracolo. Fu piuttosto l’overture di un’opera che ancora sa da farsi. Un’opera epica che si trova ora al suo crescendo, con i cori di sottofondo che crescono nei toni e disegnano, presagiscono quasi, l’avvenire di una storia che forse, un giorno, verrà ricordata anch’essa come una leggenda.
Epoche e stili diversi dividono la Nottingham di Clough e la Bergamo di Gasperini. Eppure, se si guarda bene e si usano gli occhi  del cuore, tali differenze svaniscono in uno sbuffo di vento. Chi scrive infatti, in questa Atalanta vede molto di quel Nottingham Forest di diversi decenni fa. Un piccolo club di una piccola città di provincia dispersa nel verde. Sì, forse le valli e i monti bergamaschi hanno poco a che vedere con la foresta di Sherwood. Forse è anche vero che il calcio è cambiato parecchio, da quando Brian Clough allenava nella piccola Nottingham. Ma se chiudiamo gli occhi e, per un secondo, silenziamo il rumore della nostra logica, possiamo vederlo ancora. Possiamo vedere Robin Hood tornare a combattere, con al suo seguito un battaglione di ragazzi sognanti e speranzosi. Possiamo vederlo vestire i panni di un signorotto semplice, pacato, ma passionale che porta il nome di un certo Gasperini. Uno che a suo tempo,  esattamente come Clough, tentò di affacciarsi nel calcio che conta, ma da esso fu risputato violentemente. Uno che ha ricostruito la sua carriera, tornando da dove era partito, dall’anonimato della bassa classifica. E, facendolo, ha infine posto le basi di un sogno, le basi di quella che potrebbe divenire una leggenda. Perché, come dicevo, le leggende non muoiono. Come i certi amori cantati da Venditti, fanno dei giri immensi e poi ritornano. Tornano per risvegliarci dal torpore del qualunquismo, della quotidianità, del vivere giusto per sopravvivere. A questo servono le leggende. A ricordarci che siamo ancora, nostro malgrado, creature che possono sognare. 

È forse per questo che, al di là di tifo e senso di appartenenza, credo e spero che questo sogno possa continuare a lungo. Che, a madame Fortuna piacendo, possa giungere fino in fondo, così come capitò a Clough col Nottingham, a Mourinho col Porto, a Ranieri col Leicester. Credo, e spero, che tutti ci uniremo in questa speranza, a questo sogno, anche se non propriamente nostro. E per quanto appaia impossibile, o quanto meno improbabile, sognare che, sì, persino lei possa farcela. Sognare che la favola di Robin Hood, così come ha fatto in passato, possa tornare a rivivere in Gasperini e nella sua piccola, grande Atalanta. E se ciò dovesse realmente accadere, se il sogno dovesse continuare, mi piace pensare che a sorridere saremo tutti. Perché se così sarà, sarà l’ennesima eccezione a dimostrazione che il calcio, in un modo o nell’altro, era, è e rimarrà per sempre un pezzetto di mondo dove sognare è ancora concesso a tutti. Dove sognare è l’unica cosa che conta.

“Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso.” - Nelson Mandela