Ben tornati ad una nuova e appassionante storia di calcio, oggi nel racconto parleremo di un giocatore che ha un record non riconosciuto, ma di cui ne è stato l'artefice nei suoi tempi. Andiamo a sentire il racconto di vita calcistica e non di questo atleta, come sempre il nome è di fantasia per la privacy.

Mi chiamo Arcano Modestini e sono nato il 10/08/1949 a Tripoli ma trasferito a Napoli appena a due settimane dalla mia nascita, quindi mi sento un vero napoletano oltre che attestato dai miei genitori che fecero risultare la mia nascita proprio a Napoli. Fin da bambino la mia vita non è stata facile; mio padre si arrangiava, faceva dei piccoli lavoretti spaziava da falegname a muratore, quel che interessava era portare almeno un piatto a tavolo al giorno alla mia famiglia, che comprendeva anche mio fratello Gennaro e mia sorella Maria, mia mamma stava in casa e andava a servizio da una signora per racimolare un dignitoso profitto, mio fratello aveva 10 anni e guardava mia sorella di sette ed io appena nato. Fino all'età di sei anni ricordo che avevo la passione per il pallone, che mio padre aveva trovato, me lo disse anni dopo, vicino ad un secchione abbandonato, e lo portavo sempre con me anche quando andavo da mia nonna Annunziata, a poche centinaia di metri da casa mia. La mia casa era più che modesta, avevamo perdite d'acqua in più parti di casa, tanto che mia madre oltre ad un paio di secchi era arrivata a mettere anche qualche pentola di quelle meno utilizzate, e con quell'acqua ci tirava la catena del bagno, anche perchè non funzionava nemmeno quella. La casa l'avevano ereditata da unparente di mia madre, un vecchio zio che morì centenario, e che avendo in lei una sua nipote preferita, prima di addormentarsi nel sonno dello spirito gli regalò la casa. A sette anni, cominciai a lavorare, e già, sembra strano, ma in quel tempo era l'età adatta per cominciare a fare qualcosa, anche se a me piaceva calciare il pallone dalla mattina alla sera, iniziai a lavorare in un banco di frutta e verdure, scaricavo i secchi sporchi e iniziavo le mie prime faccende; pelare le patate per chi le chiedeva già sbucciate, togliere quel che di più c'era ad ogni verdura, tipo torsoli vari o foglie ingiallite. A me piaceva cantare, e intonavo spesso le nostre tipiche canzoni, da O' Sole mio a Maruzzella di Carosone, che era un giovane che iniziava a farsi notare nel panorama della musica napoletana e che pian piano si faceva conoscere in tutto il Mondo, un giorno lo incontrai anche, ma qui era solito incontrare grandi artisti, come Vittorio De Sica o Sofia Loren, non passavano certo inosservati. La mattina quindi sveglia alle 5 e rincasavo alle 14, ma non ero stanco, anzi, prendevo il mio pallone e scendevo a giocare. Avevo due amici; Vincenzo e Antonio e giocavamo a chi riusciva a non farsi togliere il pallone, una specie di acchiapparella con la palla contesa. Ricordo che passavamo fino al calar del sole in Piazza Carlo III, e non ci stancavamo mai. All'età di 12 anni, a mio padre venne proposto un lavoro a Potenza in Basilicata, che gli avrebbe reso la vita meno difficile, così ci trasferimmo tutti a Potenza, avevamo una casa nuova e un giardino, con tanto di animali poco distanti, e una vasta prateria, dove poter giocare e scorazzare in sella a delle biciclette che il proprietario stesso ci aveva lasciato. Non avevo più i miei amici per giocare, ma costruimmo, con il grande aiuto di mio padre, due porte da calcio e con le reti che erano state recuperate da un magazzino, erano quella da pesca, ma funzionavano proprio come quelle delle porte da calcio reali. Giocavo con quello che oggi i ragazzi chiamano 'porta a porta', mentre mia madre intonava con malinconia le sue canzoni, e ogni tanto lasciva qualche lacrima cadere dal suo bel viso, gli mancava Napoli così come a tutti noi. Nel Giugno 1964 a quattordici anni, mio fratello mi disse "Ho trovato un grande campo da calcio, dove ci gioca la squadra locale. Ti va di andare a vederla giocare?", ed io più entusiasta che mai risposi "Prendi la bicicletta e a tutta velocità!". Arrivammo fuori il campo dello Potenza Sport Club che oggi è il Potenza calcio, il Campo Sportivo del Littorio, la squadra aveva una maglia a righe rosso e blu scuro, l'avversaria in questa amichevole era sempre una squadra del territorio della Basilicata, sembrava più una squadra mista d'età, dai 20 ai 50 anni. Ricordo che lo stadio sembrava davvero importante, certo era allo stato brado, quelli di cemento senza confort come oggi, ma si vedeva benissimo il campo, eravamo a due passi. Quel giorno non lo dimentico, perchè ci fù parecchia gente venuta a seguire quella partita, tra le risa di chi aveva un marito o un padre al di là con gli anni e le avvincenti manovre di chi invece era lì per giocare nella vera squadra. Alla fine della gara, ci fù un discorso del presidente, che comunicò anche a chi si trovava fuori dal campo di farsi avanti se aveva un'età compresa tra i 15 e i 30 anni per fare un provino davanti all'allenatore. Così mio fratello che rientrava nell'età mi disse "Vieni che proviamo" io risposi "Ma non ho nemmeno 15 anni li devo compiere tra due mesi", ma mio fratello con uno sguardo severo rispose "Tu digli che hai 15 anni, capito!". Ci diriggemmo verso il campo, c'era una bella fila di persone, ed io ero frenetico, sembrava non riuscissia a stare fermo un secondo, seguivo chi faceva il provino ed eseguivo i movimenti sul posto, nel frattempo il presidente disse "Nel frattempo chi sta in fila si scaldi sul posto, così che non c'è pericolo di infortuni o doloroi muscolari". Io e mio fratello facevamo quello che oggi si chiama 'sprint sul posto' e salto di testa. Così dopo una ventina di minuti toccava a noi "Voi siete?" ci chiese il presidente "Gennaro e Arcano Modestini da Napoli", mi guardò e disse "Ma tu li hai 15 anni?", e mio fratello "Certo che si, li ha fatti due giorni fa". Così l'allenatore ci mise faccia a faccia e contando a tre ci disse "Ora vi girerete e correrete con tutta la forza che avete nelle gambe fino a quella porta laggiù", non so quanti metri saranno stati, forse 60 o 70 "Tre, due, uno via!", partimmo in uno scatto ad altissima velocità, io ero più veloce di mio fratello tanto da scaccarlo e arrivato alla fine continuavo a saltellare sul posto, e sfiancato mi disse "Ma che hai nelle gambe?" ed io sorrisi pronto ad un'altra corsetta leggera di ritorno. L'allenatore poi ci mise a dstanza di due o tre metri a palleggiare tra noi due; testa, piede, spalla, destro e sinistro. E poi ci fermò, per dare spazio agli altri. Così dissi a mio fratello "Ma avremmo fatto bella impressione?", mi rispose "Tu sicuramente...". Così dopo un'altra mezzora, chiamarono i nomi delle persone che sarebbero passate a nuovo provino, stavolta in una partitella. Snocciolando tutti i nomi scritti su un pezzo di carta iniziò "Norini....Mosetti...Pallini...Modestini...", l'allenatore "Modestini quale? Gennaro o Arcano?", e il presidente "A scusate...Arcano". Sobbalzai e abbracciai mio fratello che mi disse "Ora fai vedre che sai giocare al calcio, forza e coraggio". L'allenatore quindi butto giù due formazioni, anche in base alla fisicità dei giocatori, io ero poco più alto di 1,60 quindi decise di farmi giocare esterno di sinistra, e già ero un mancino. Non avendo a disposizione delle maglie della squadra locale, mise tutti quelli con la maglia simile in una squadra e i restanti nell'altra, ci fù anche uno scambio di magliette in alcune circostanze, zuppe di sudore, potete immaginare. Quindi iniziò la partita, lallenatore era uno per due squadre, anche sepoi il presidente ci metteva sempre la sua parola di mezzo, e poi parlicchiavano tra loro su questo o quel giocatore in campo, già giocatori, anche se nessuno di quelle persone, almeno si diceva, avevano mai calcato un campo da calcio. Così in una ripartenza il centrale di difesa, mi vide e con un cenno del capo, mi fece capire che mi avrebbe lanciato in profondità, così scattai, ero talmente veloce che arrivai ben prima della pallone, poi con una doppia finta ingannai il loro terzino e a tutta velocità arrivai sul fondo palla dentro e l'attaccante, un gigante di quasi 1,90 la buttò dentro di testa. L'allenatore mi richiamò "Modestini, devi aprire gli spazi, tenta di accentrarti, ora ti sposto a destra", ed io "Ma mister io sono sinistro puro, con il destro non sono tanto capace", così cominciai, a spingere sulla fascia destra, ma non sapendo usare il destro non arrivavo sul fondo, rientravo e crossavo, così per tutto il primo tempo. Poi da lontano l'allentore mi gridava "Quando rientri prova il tiro!". A fine primo tempo, tutti seduti in mezzo al campo a riprenderci, l'allenatore stipulò una sua prima lista, dove ero compreso anche io, quindi spronava a chi non era stato nominato a dare di più. Poi si avviinò a me e disse "Devi tirare, rientri e tenti di far girare quella palla verso la porta, devi colpirla con l'osso del ditone. Se non lo fai ti tolgo dal campo". Inpaurito di quel che mi aveva detto, rientrai più carico e concentrato, dovevo fare quel tiro a giro, o quel che sarebbe uscito, non avevo mai calciato a giro, ma dovevo provarci. La partita riprese e alla prima occasione, dopo un filtrante verso la porta, presi la palla rientrai sul sinistro e dallo spicchio dell'area grande feci partire il tiro, la palla girava che era una bellezza, il portiere si getto a volo d'angelo, ma non la sfiorò nemmeno, e la palla dopo aver baciato il palo poco sotto l'incorocio s'infilò in rete. Esulati verso mio fratello che mi disse "Ma che hai fatto! Ma che hai fatto!" con un sorriso di chi aveva visto una magia. Finita la partita l'allenatore fece le sue scelte, soltanto in quattro eravamo stati scelti per fare l'aggiunta alla squadra già esistente. Io ero soprannominato per le mie origini napoletane 'O Curtù' (Il Basso). Così mi venne data la maglia numero 8. E cominciammo le amichevoli con tutte le squadre della Basilicata, si partiva e si tornava appena finita, con mio fratello sempre al seguito in ogni gara. Mio padre e mia madre mi avevano dato carta bianca, volevano che seguissi i miei sogni, e il calcio era al primo posto. La squadra era appena riuscita a salire dalla Serie C alla Serie B. Così entrai nella squadra così detta riserve, ero troppo giovane per poter esordire in prima squadra, avevo appena compiuto 15 anni, e l'allenatore mi disse di studiare ogni partita e quello che faceva l'esterno di centrocampo, Vincenzo Rosito, fortissimo esterno, uno dei punti di riferimento della squadra oltre a Silvino Bercellino, attaccante fuori dal normale sceso dalla Juventus al Potenza in prestito, ma formidabile palla al piede e soprattutto sotto porta. Ogni domenica con mio fratello assistevamo alle partite. Il Potenza rimase per ben tre anni in Serie B, e non ebbi spazio, continuavo ad allenarmi con i giocatori della prima squadra, e partecipavo alle partitelle, ma del campo non c'era ombra. Così a fine 1967-1968 con la squadra retrocessa in Serie C. L'allenatore mi disse "E' meglio che ti trovi un'altra squadra, anzi ti ho proposto ad un club dell'Interregionale, vedrai che un giorno mim ringrazierai. Così mi trasferii al Melfi, sempre una squadra della Basilicata, dove mio padre, che era riuscito a prendere una macchina usatissima, mi accompagnava al campo, l'Arturo Valerio, ex calciatore del Melfi calcio, e fù una nuova emozione. La squadra era in Serie D penultimo posto, e a fine stagione fù retrocessa in Prima Categoria (1968-1969). L'allenatore del tempo Antonio Francese, non mi vedeva nella sua squadra, ma venne esonerato a stagione conclusa e sostituito dal nuovo allenatore, che mi disse a chiare lettere "Giovane, ora ti butto dentro da titolare, perchè sò che hai tanto da dare". Così dopo tutta la preparazione estiva (1969-1970), cominciai a vedere il posto da titolare, quella fascia destra prendeva fuoco quando passavo e i tifosi, più di 4000 mila circa, esplodevano in applausi e incitamenti. La stagione per la squadra non fù delle migliori ci piazzammo al decimo posto, e lo sconforto dopo quella retrocessione dell'anno precedente prese l'avvento, alcuni giocatori andarono via per cercare fortune altrove, e ne arrivarono dei nuovi, ma mi tolsi la soddisfazione di segnare, nella gara contro AS Genzano, con una conclusione da fuori area alla destra del portiere. L'anno successivo (1970-1971) sentivo sempre più mia quella maglia gialla canarino e con qualche spezzone di verde, soprattutto sul colletto, ed ebbi la mia miglior stagione, concludendo tutte le gare con un bottino di 8 reti, di cui 2 su tiro a giro, già quel famoso tiro che il mio primo allenatore estunuamente mi indicava di fare. A fine stagione, almeno così mi disse il presidente del tempo, arrivarono molte offerte, dai grandi club di Serie B, e addirittura in Europa, dove c'era la possibilità di giocare in campionati di dalla seconda divisione. Io però sapevo a malapena l'italiano, pensate se potevo trasferirmi in una nazione nuova e imparare la loro lingua, eppure accettai di trasferirmi in Portogallo, al  Barreirense, nella città di Barreiro nel distretto di Setubal. Ricordo che all'inizio era proprio difficile vivere in una città diversa da Napoli prima e Potenza poi, ma ci si doveva adattare a tutto, soprattutto al cibo, molto distante dalle nostre pietanze, ma come dice il detto 'Paese che vai, usanze che trovi', quindi mi ambientai alla fine. Ricordo il primo giorno, scesi dall'aereo e mi trasferii in una casa, dove già viveva una famiglia, ma lì si utilizzava e quindi avevo una mia camera mentre il bagno era da condividere con la famiglia d'appartenenza. Non fù per nulla facile, soprattutto quando dovevo uscire, anche perchè non davano le chiavi di casa, quindi avevo l'orario che non poteva superare le 22 di sera, anche perchè erano persone che al mattino si alzavano molto presto per andare a lavorare, e non potevo stare da solo in casa, quindi al mattino dovevo trovare qualcosa da fare, per la maggiore camminavo, a me piaceva molto camminare e vedere gente, oltre a moltissime belle ragazze che alla mia italianità si affezzionavano e non poco. Venni portato in sede pochi giorni dopo a firmare il mio primo contratto da professionista, il campionato era la Liga Nos quindi il massimo campionato portoghese, dove c'era un giocatore assurdo, Eusebio 'La Pantera Negra' soprannominato dai tifosi della nazionale portoghese. E che dire? vederlo giocare dal vivo fù un'emzione incredibile spesso pensavo "Meno male che non sono un difensore, altrimenti questo mi avrebbe fatto ammattire". La stagione era in mano al nostro destino, la squadra l'anno precedente si era piazzata al quarto posto e quindi aveva diritto ad entrare in Coppa Delle Fiere. Quindi avevo di colpo trovato un club che non solo giocava nella massima serie portoghese ma soprattutto giocava in Europa. Firmato il contratto  53,8 Real portoghesi poco più di 500.000 Lire al tempo. Era un super stipendio per me, ma alla fine il club portoghese era dovuto arivare a tale cifra perchè c'era parecchia concorrenza. Non so, se quello stipendio fosse nella parte alta degli ingaggi che aveva quella squadra, ma sapevo che dovevo dare l'anima per la riconferma. Conobbi, nel frattempo, una ragazza portoghese, Ariana, che aveva due anni più di me, aveva un fisico spettacolare ed era una bellezza unica, quindi portavo anche molti ragazzi del posto a guardarmi storto, e spesso mi punzecchiavano con frasi del tipo "Italiano lascia perdere le nostre ragazze", però me ne fregavo. In campionati intanto iniziavo a farmi notare, partii subito titolare e subito due reti alla prima di campionato alla Tirsense. Mi appassionava quel calcio e si sposava con le mie movenze in campo, pian piano stavo divenendo un giocatore molto tecnico, il mio piede sinistro oltre a rientrare e tirare innescava azioni importanti all'attaccante di turno che sia stato Serafim o Valter Costa, che la dovevano soltanto spingere in rete. In Europa incontrammo la Dinamo Zagabria a trentaduesimi, e in casa la battemmo per 2-0 e sentivamo di dover fare una gara importante anche al ritorno, i croati erano una squadra importante e infatti nel ritorno ci sommersero per 6-1. Usciti dalla Coppa Delle Fiere ci ributtammo in campinato, risultati altalenati, e poi ci trovammo con le squadre più forti. Contro il Benfica di Eusebio, la squadra portoghese più forte in quei anni, perdemmo per 1-0, ma a fine gara, con un portoghese molto maccheronico, riuscii a farmi fare un autografo proprio sulla sua maglia, che scambiò con la mia, anche se poi una aveva un peso e l'altra meno. Quella maglia l'ho appesa in camera dentro un quadro a doppia vista con l'autografo ben in vista, forse la mia sarà finita dentro qualche secchio dello stadio poco dopo l'uscita dal campo, anche se spero l'abbia tenuta. L'altra squadra forte del Portogallo era lo Sporting Lisbona, con la quale subimmo uno 0-3 tostissimo da digerire, anche se erano i vicecapioni di Portogallo. Ci piazzamo al decimo posto finale. Nella stagione successiva (1971-1972) tra le partenze importanti e una campagna acquisti non proprio per una prima serie, la squadra riuscì a piazzarsi in un soprendente ottavo posto, e io riuscii a portare a casa ben 10 reti, un bottino mai raggiunto nella mia carriera. L'anno successivo ci fù un fortissimo interessamento da parte del Barcelona, che avrebbe fatto un'offerta che in Lire italiane sfiorava i 10 milioni di Lire, alla quale si accodarono anche due club inglesi, lo Sheffield United e il Newcastle, mentre dall'Italia, quella per cui io speravo, non era arrivata nessuna offerta. Nel frattempo ero stato soprannominato dai tifosi 'Flecha Do Barreiro' (Freccia di Barreiro), e in strada i tifosi mi chiedevano di restare ancora un anno, così dopo essermi confrontato con la presidenza, accettai di restare ancora una stagione, e l'anno successivo di accettare, per il bene del club qualsiasi offerta, che sarebbe stata davvero importante sotto il profilo monetario. La stagione 1972-1973 iniziò ccon tutte le aspettative di dare tutto e riuscire a fare una stagione più importante. Così iniziò la preparazione, e in una partitella di casa, mi scontrai contro Manuel Bento, nostro portiere in uscita, e mi procurai la rottura del tendine di achille. Il dolore fù fin da subito allucinante, gridavo e mi tenevo la caviglia, piangevo e gridavo, venni trasportato a bordo di una auto subito all'ospedale di Barreiro, dove venni subito operato. Purtroppo l'operazione non andò come speravo, e appena ripreso i sensi dalla anestesia, il dottore mi spiego che non c'era più niente da fare e che non avrei più potuto calcare un terreno da gioco. Decisi di restare in Portogallo fino a dopo la ripresa, nel frattempo era finita con Ariana, fui costretto da alcuni 'bulli' che me le promisero se non l'avrei lasciata, e inventando la scusante che sarei tornato in Italia dopo la ripresa dall'infortunio la lasciai. Tornai in Italia dopo due mesi dalla ripresa, salutai la squadra che mi tributo una sorpresa allo stadio, dove tutti i tifosi mi avevano preparato una festa d'addio, le lacrime di commozione furono davvero tante, mi dispiaceva lasciare Barreiro, soprattutto perchè mi ero affezzionato a tutte quelle persone. Così al rientro in Italia, continuai a fare fisioterapia a mie spese. Una volta ripreso però ero intento a continuare con il calcio, presi il patentino di allenatore, e mi rimisi in gioco in piccoli club di provincia, ripartendo dalla Basilicata per poi spostarmi nel centro Italia. Un bel giorno del 1975 incontrai Ariana che era partita dal Portogallo per fare delle sfilate di moda, e fù di nuovo un colpo di fulmine, così tentai di convincerla a restare in Italia, e dopo aver concluso il suo periodo di lavoro, si presentò a casa mia e senza dire nulla mi abbraccio e scrisse su un foglio "Voglio restare per sempre con te", così dopo essere tornata in Portogallo appena due settimane dopo tornò in Italia. Io mi ero stabilito a Roma, dove allenavo un club capitolino, dove decisi di farmi iscrivere con il doppio ruolo, allenatore-giocatore, anche se sconsigliato da mio ortopedico e da quello della società, ed entrai in campo, che emozione dopo due anni riassaggiavo cosa significava giocare al calcio, con tanto di tocchetti che mi riportavano a quel calcio. Alla fine di quella gara Ariana mi disse di aspettare un bambino, la festa fù doppia, i miei giocatori mi festeggiarono e mi riempirono di spumante, e già lei lo aveva detto a mio fratello che aveva organizzato il tutto. Mio padre e mia madre si trasferirono a Roma in zona Porta Metronia, mentre io ero poco distante dal Colosseo. Naque Eusebio, non avevo dubbi sul nome che gli avrei messo, Ariana non poteva essere più felice, Continuai ad allenare e giocare fino ai trent'anni poi staccai la spina aprendomi un negozio di elettrodomestici. Nel 1980 arrivò la mia secondogenita Adriana, poi Mario nel 1981 e Davi nel 1982. Ora la mia vita è da pensionato, che ogni tanto ha viaggiato tra Italia e Portogallo, e spera di tornare a viaggiare, che torna sempre a Barreiro dove ho lasciato tanti amici, e spesso mi trovo in rimpatriate dove si ricordano quei tempi, del 'Flecha do Barreiro' che stupì tutta Europa.