Rientrato a Torino dopo giorni d’assenza, stavo percorrendo le strade del centro in prima mattina, procedendo a lungo in un’apparente normalità, fino a quando notai un’insolita atmosfera.
Iniziai a muovermi con circospezione osservando attorno a me luoghi ben noti: le piazze, i corsi, le vie … quelli di sempre.  Eppure adesso apparivano diversi, come mai visti prima. Provavo l’impressione di trovarmi nei giorni di ferragosto: ma no, era diverso, tutto mi appariva strano, surreale. Allorquando fui assalito da un misto di apprensione e stupore.
Giunsi all’imponente piazza Vittorio Veneto.
Mentre l’ammiravo, senza capirne il motivo mi bloccai e rimasi impietrito. Improvvisamente tutto si stava trasformando come in una visione onirica, ogni palazzo, con le forme dai contorni netti, staccandosi dagli altri per uno strano gioco di luci, si poneva in risalto.
Continuai ad aggirarmi senza meta e con un certo affanno, finché presi coscienza: l’enorme piazza, dalla prospettiva perfetta, era completamente deserta. Mancava la frenesia di tutti i giorni. Un vuoto greve riempiva lo spazio, mancava la gente.
Alzai lo sguardo verso il ponte, sul fiume, aveva l’aspetto insolito: una fotografia dalla quale erano state rimosse le persone.
Sì, manca la gente, manca il movimento in questo spettacolo surreale.
Quante volte ho desiderato che le nostre città fossero svuotate, per ammirarne meglio la bellezza…!? Le avrei volute a misura d’uomo, prive di quegli affanni tipici della nostra epoca. Adesso era esattamente così. La gente era scomparsa, non c’era più. Aveva lasciato strade e portici.
Che cosa stava accadendo?
Perché non vi erano le persone?

Allora compresi: lo spettacolo, anche se suggestivo, privo del pulsare della vita, del ritmo delle genti, del loro vociare, dell’andirivieni cadenzato dallo scalpiccio, in realtà mi destava preoccupazione.
Nessun suono, il silenzio assordante aleggiava nella piazza, la prospettiva insolitamente spettrale.
Ogni scorcio della città sembrava artefatto, con ponti deserti e rigide statue, illuminati soltanto dalla tenue luce del mattino, privi dell’umano soffio vitale.
Pochi passi e finalmente ecco alcune persone. Sono in fila di fronte all’ingresso di una farmacia, una dietro l’altra, distanziate fra loro in modo ordinato. Accettano il disagio senza proteste.
Prestando attenzione ai discorsi comprendo: il Governo, per evitare una possibile epidemia, ha imposto misure di sicurezza.  
Adesso mi spiego: la gente sta applicando le regole per evitare il dilagare di un virus.

Giunto a casa, accendo la radio e pochi minuti dopo apprendo del blocco di tutto il Paese ed il confinamento stretto di tutti gli Italiani al proprio domicilio. Provvedimenti drastici giustificabili solamente da una situazione disperata. Sussiste addirittura il rischio di saturare repentinamente gli spazi negli ospedali a causa del ricovero dei contagiati da coronavirus. Le parole del Presidente del Consiglio, dal tono greve, scandiscono i provvedimenti fino ad un ordine perentorio: “Dobbiamo cambiare le nostre abitudini e lo dobbiamo fare subito!”, troncando di netto la frequentazione con parenti, amici, conoscenti… immobilizzandoci nelle nostre case già da domani! Quest’ultima frase mi colpisce come un pugno allo stomaco, in quei pochi istanti un’enorme scure si è abbattuta sulle nostre vite.
Consumato un pasto frugale, volli uscire ancora e già l’atmosfera tutt’ intorno era cambiata. Ancor meno gente in giro, frettolosa, intenta a qualche ultima commissione.
Seduto su una panchina, pensai al mio futuro, ripromettendomi di evitare pericolose sortite e di pazientare stoicamente la clausura che ci aspettava. Al calar del sole ritornai a casa con passo spedito, considerando che quelle sarebbero state giornate in cui si sarebbe vissuto il giorno come fosse il tramonto e la sera come fosse notte fonda.

Da quel giorno le strade principali erano continuamente attraversate da mezzi di soccorso velocissimi. Il movimento accompagnato dal frastuono delle sirene è impressionante e forniva la sensazione della tragedia. Guardavo angosciato quelle ambulanze pensando alla povera anima a bordo che stava soffrendo e chissà se sarebbe mai riuscita a far ritorno a casa….
“Andrà tutto bene” - “Io resto a casa” fra la gente risuonavano questi motti come parole d’ordine scambiate volentieri, senza forzature, per farsi coraggio, per trovare il modo di aiutare se stessi e gli altri.
Improvvisamente il Governo decretò la chiusura di negozi fabbriche uffici scuole e tutti i luoghi pubblici: mancò il lavoro per molte famiglie.
Qualcuno si sentì perduto dovendo provvedere al proprio sostentamento, forse anche gravato da un’infermità. Si organizzarono subito e con altruismo associazioni e volontari per alleviare le pene di chi era solo e di chi non aveva più soldi per fare la spesa e mettere sul tavolo qualcosa da mangiare. Ai punti di distribuzione si formarono lunghe file di persone, persino giovani, venute a chiedere una busta di cibo, anche solo un po’ di latte, zucchero e marmellata per il proprio bimbo tenuto in braccio a far la fila anche lui. Quella sera, almeno per il piccino, a cena sul tavolo ci sarebbe stata una tazza fumante.
Improvvisamente gli homeless si trovarono senza dormitori, chiusi in quando inadeguati alle distanze sociali stabilite, e si ritrovarono a dormire in qualsiasi punto della città avvolti nelle loro povere cose su un’aiuola, una panchina o sotto un portico. 
In generale cresceva l’ansia per il drastico e angosciante cambiamento.

Nei giorni a venire molti soffrirono la difficoltà di dover apprendere nuovi modi per lavorare con mezzi tecnologici avanzati e in situazioni logistiche inconsuete. Anche i trasporti crearono forti disagi.  I bambini furono relegati in casa senza la scuola, soffrendo fortemente della mancanza dei loro insegnanti, dei giochi con i loro compagni e dell’aria libera.
Ogni giorno alle diciotto, all’improvviso, un clamore: la gente sfogava affanni e paure sui propri balconi intonando in coro l’Inno Nazionale, quindi Azzurro di Celentano e altre canzoni. Cantavamo tutti insieme, uniti, in spirito comunitario. Si concludeva con un applauso per i medici e gli infermieri impegnati nell’assistere i malati a prezzo della loro vita, i balconi illuminati dal tricolore dell’Italia come segno di cordoglio per i defunti.
Tutte le sere, con gli occhi umidi, soffocavo in gola una profonda emozione accompagnata dall’incredibile orrore che investiva i nostri giorni.
Non rimane altro che la solidarietà, l’unica vera arma che abbiamo per combattere questa battaglia, questa dura lezione che la natura ci sta imponendo tramite un invisibile letale essere vivente.
Angoscianti furono le tragiche immagini di quei convogli di camion militari, carichi di bare protetti da teli mimetici, diretti verso lontani cimiteri disponibili ad accogliere le spoglie dei deceduti, per i quali non c’era più posto nelle loro città. Quelle scene evocarono tristi ricordi di salme di soldati riportate in patria o sepolti dopo immani eccidi.
Sì, negli ospedali si moriva, morivano anche numerosissimi medici e infermieri, persone che fino all’ultimo non cedevano al virus andando ben oltre ai loro doveri spinti dalla loro scrupolosa coscienza e da una incrollabile buona volontà. Tutti i giorni si assisteva al martellante rito dei numeri delle vittime sempre più numerose di contagiati e deceduti in ascesa verticale.
A Milano qualcuno calcolò che il numero dei morti, sotto le macerie dei bombardamenti nell’ultima guerra, fu inferiore; questa considerazione fornì a tutti la vera dimensione del dramma che stavamo vivendo.
Fu l’inizio di una lunga odissea.
Migliaia le perdite umane, in uno scenario che presto assunse proporzioni apocalittiche, mondiali. Nessun continente risparmiato. Lo si comprese subito, dopo pochi giorni dall’inizio. Un lasso di tempo contemporaneamente breve e lunghissimo, in cui le disposizioni del Governo cambiavano repentinamente. Rapidamente il contagio si diffuse prima in tutta Italia, poi nei Paesi limitrofi, mettendo in ginocchio l’intera  Europa, gli USA, il  Sud America, l’Asia e l’Africa.
Il sistema sanitario italiano fu messo di fronte ad un’ardua prova. Mancava il personale sanitario: si è chiesto aiuto a medici ed infermieri da luoghi lontani. Giunsero così in Italia, con generosa disponibilità: Cinesi, Cubani, Russi.
La produzione mondiale improvvisamente si bloccò sottoponendo il sistema finanziario globale ad una durissima pressione: un vero e proprio disastro economico e sociale! Le borse di tutto il mondo crollarono, andarono in fumo i risparmi della gente costringendo l’Unione Europea ad assumere provvedimenti via via crescenti.
Incominciò a farsi strada la consapevolezza del grave pericolo per cui il Coronavirus possedeva la potenzialità di distruggere l’intera umanità con una pandemia, del tutto imprevista e forse sottovalutata. Questo evento, già verificatesi nel corso della storia, stava assumendo un gigantesco rilievo, come quelli che vennero definiti  “I cigni neri”.
Proprio su questo ultimo argomento, una sera volli approfondirne la conoscenza. Ciò mi impressionò a tal punto che la stessa notte ebbi un sogno angosciante. L’incubo iniziò con la terribile visione di un cielo scarlatto per le alte lingue di fuoco che si levavano da ogni dove. Nel sonno agitato, avvertii lo spostamento d’aria di un enorme battito d’ali ed il sibilo acuto di un mostruoso e gigantesco Cigno Nero intento a distruggere, a colpi del suo abnorme becco, le cime di sontuosi edifici, simboli della nostra illusoria potenza; taglienti speroni su ali e zampe completavano la distruzione, trasformando ogni costruzione in un cumulo di macerie.
Le persone superstiti cercavano scampo in un ultimo disperato rifugio, sotto l’ombra del ventre raccapricciante della mostruosa bestia, persuasi di essere al sicuro fino ad un attimo prima che il gigantesco animale si accosciasse cinicamente, dilaniando con gli artigli delle zampe uomini ed animali nel loro presunto rifugio, immolati in un tragico olocausto. il Cigno Nero, quel mostro mai visto, continuava la sua opera devastatrice degli uomini e della loro intera civiltà. Quanto a me, fui tratto in salvo dalla prima luce del giorno che mi destò.
Non può finire così, non può l’uomo concludere la sua esistenza in un’Apocalisse simile.
Nessuno avrebbe detto che un cosi orripilante organismo potesse essere tanto potente, diventare una forza mostruosa devastante.  
L’umanità reagì reperendo velocemente le risorse necessarie. Tecnologia e scienza impegnati nella ricerca di nuove radicali soluzioni. Ogni uomo e ogni donna chiamato ad adoperarsi per condividere il proprio sapere, con spirito di sacrificio, per ottenere farmaci e vaccini efficaci.

Poi i vaccini arrivarono e all’improvviso sorsero molti centri di vaccinazione e ciascuno o prima o poi fu invitato a farsi vaccinare uno, due, tre volte e già si pensa alla quarta. Il virus muta e non si ferma e il terribile cigno nero continua a mietere vittime, seppur in misura minore. Una mutazione generalmente significava un virus più forte e una nuova ondata. Non è ancora finita e non se ne vede una fine.
In qualche misura riusciamo a convivere con il virus, riprendendo la nostra vita, seppur con strette precauzioni e limiti; l’economia ha ripreso, perché tutto non si poteva arrestasse per sempre. Le urla delle sirene ogni giorno ci ricordano cosa sta accadendo in una situazione che apparentemente sembra accettabile.
Dovranno ancora trascorrere molti giorni affinché l’umanità riesca a sconfiggere questo flagello, quando nuovamente un’alba luminosa squarcerà le tenebre su di un cielo azzurro. Quel mattino, primo di infiniti altri, i nostri occhi ammiccanti sopra le mascherine, saranno illuminati dall’entusiasmo di una nuova era e festeggeremo tutti insieme il trionfo sull’ombra del Cigno Nero.
Riempiremo nuovamente le piazze e le strade e ci ritroveremo per stringerci la mano abbracciandoci felici, le ragazze con vestiti sgargianti al sole e le chiome ornate di fiori di campo; lanceremo al cielo tutte le mascherine, qualcuno suonerà una fisarmonica e balleremo tutti insieme cacciando angosce e trepidazioni sostituite da speranza e libertà.