Il pugile è senza alcun dubbio l'atleta il cui contorno psicologico risulta talmente distante dal profilo umano e comportamentale da renderne complessa una spiegazione di base, riferita a quella particolare attività sportiva non comune, se non rifacensosi alle motivazioni sul piano introspettivo e personale.

Tutti uguali, eppure così diversi. Sentono lo stesso bisogno di sfondare e di affermarsi ciascuno nella propria categoria, ma il desiderio di compiersi si modella diversamente all'interno di un soffocato sentimento di rivalsa verso qualcosa. Per qualcuno è una questione sociale, per altri è un affare economico, per Massimiliano Allegri invece è influenzare la gente con un pensiero filosofico, una corrente dimenticata come si dimenticano le cose invisibili poiché essenziali: la semplicità.

L'errore più comune è proprio quello di identificare il pugile come un pazzo, per lo più con sfumature di una personalità mentalmente aggressiva o comunque troppo semplificata, perché il pugilato non è mai uno scontro impulsivo. Non è un litigio che esplode in zuffa, non è una rissa tra due energumeni nervosetti. Il pugilato non prescinde dalla serietà e dalla costanza, impone un impegno totale e un lavoro continuo, pressante. Giornaliero e settimanale. Chi arriva sul ring non è un individuo selezionato da un'élite, si viene scelti dalle rigide leggi della palestra, proprio come si conquista e si mantiene una panchina nel calcio che conta. Nel pugilato si segue il dogma della sopportazione, una lezione che Allegri ha fatto propria come il Padre Nostro per il seminarista.

Il pubblico chiede sempre le stesse cose: vuole la spettacolarizzazione, vuole la gioia per gli occhi, vuole ritmo, fluidità e un colpo emozionante. Chi paga il biglietto non vuole di certo assistere ad un'esibizione banale, soprattutto non vuole vedere trionfare l'avversario al termine del match, questo è certo. La vittoria finale è un elemento imprescindibile, molto più di quanto si tiene ad ammettere. Ed ecco quindi l'illuminazione, l'idea rivoluzionaria che smonta e rimonta lo stesso concetto utilizzando meno pezzi per raggiungere lo stesso risultato. Vincere e basta, dando a tutto il resto un'importanza marginale.

“Conta solo il knock-out”, ma nessuno è mai riuscito a traslare un concetto talmente circoscritto ad un ambiente specifico verso tutt'altro mondo, privo di guantoni e paradenti. Eppure Massimiliano Allegri ci sta provando da qualche anno, senza saperlo.

Il pre-gara è sempre un impasto preciso di concentrazione e severità, dalle telecamere al campo, senza guardare troppo a lungo negli occhi un avversario con il rischio di sottovalutarlo. Un processo mentale che termina positivamente nel momento in cui ogni opponente viene messo sul medesimo piano, tutti uguali indistintamente, a prescindere dalla loro casacca, dal loro ceto e dalla loro posizione in graduatoria. Perché alla fine tutti devono essere accomunati dallo stesso destino: cadere al tappeto. La partita non è una partita, il limite dei famosi due tempi in 95 minuti complessivi si limita a galleggiare sulla superficie di un giornalismo che si accontenta, nascondendo una mentalità pugilistica che vive nel profondo. Una gara divisa in dieci round dalla durata singola di dieci minuti scarsi, in cui al termine di ciascuno si analizza, si studia e si cambia qualcosa nella tattica di azione. Un processo che si ripete fino alla fine. Accorgimenti impercettibili, indicazioni tattiche, consigli veri e propri, fino ai cambi di posizione, arretramenti, inversioni di fasce e subentri dalla panchina, sempre decisivi. E per tutta la durata dello scontro vige l'articolo della “Sofferenza sportiva” presente a capo del testo unico relativo alla sottomissione, con o senza il benestare di colore che hanno pagato notevolmente il prezzo del loro ticket per essere presenti ad un non-spettacolo.

Perché Allegri è esattamente questo, un fuoriclasse ad incassare, il campione dei colpi subiti senza alcuna conseguenza. Prestazioni ben al di sotto dei parametri del bel gioco, finali perse in Europa, scelte di formazione discusse su ogni tavolo più o meno competente per giudicare, scomodi paragoni col passato, gestione dei giovani, fissazioni con Mandzukic, critiche più o meno costanti dall'opinione pubblica, dagli esperti, dai giornalisti e addirittura da una fetta notevole del tifo a favore, tali da indurti a pensare che vincere, forse forse, non interessa più a nessuno. Eppure Allegri non sente niente. “Non fa male!”

Tra colpi di genio e fine umorismo Allegri è ancora saldamente al suo posto, abituato a sorprendere tutti in campo e in televisione, con un pensiero nuovo e vecchio nel medesimo istante, a tutto tondo, dentro ad una concezione della partita spiazzante per tutte le volte in cui il caso fortuito o le proprie intuizioni gli abbiano dato sorprendentemente ragione, nonostante la voce di popolo.

La violenza con la quale un pugile disputa gli incontri inganna facilmente, il caso del grande Cassius Clay ne è la rappresentazione più celebre, una brutalità dai connotati di una sovrastruttura compensatoria opposta alla sua reale personalità di gigante buono, che volava come una farfalla per pungere come un'ape. Per Allegri siamo all'inverso della teoria, una vera equazione a specchio. Sembra che non abbia un'attitudine da grande squadre, sembra che non capisca come gestire tatticamente la squadra, per come scende in campo la Juventus sembra perfino di non essere un allenatore vero.

Forse, come per Muhammad Alì, “Non è come sembra”.