Aeroporto di Budapest, è l’ora della vergogna. Cosa importa che ora fosse! L’orologio dell’infamia s’è fermato sulle facce atterrite di un uomo, una figlia, una moglie, segnando numeri a casaccio come seggiole svolazzanti e cori deliranti.  Cosa importa che giorno fosse! Il calendario della follia segnava solo giorni neri, era tutto nero. 

Era l’aeroporto di Budapest, pochi attimi di delirio ed era tutto nero.  Il nero del lutto. All’aeroporto di Budapest il calcio è morto. 
La ragione ha lasciato il posto all’oblio, non c’è luce, non c’è un millimetro di spazio da concedere alla giustificazione, non c’è niente. 
Il tifo non c’entra, il calcio non c’entra, la rabbia sì, quella c’entra. È animalesca, bestiale. 

Un’alluvione di schifezza si è abbattuta su una famigliola al seguito del loro caro. Che di mestiere fa l’arbitro, che di nome fa Anthony. Padre, marito, arbitro. Una persona. Offesa, aggredita, minacciata nei suoi affetti più sacri,  sommersa dalla furia e dall’arroganza d’un branco inferocito. Niente facce, niente nomi, solo violenza assurda. Imbecillità che degenera in miserabile guerriglia: da una parte la famiglia Taylor, innocua, inerme, smarrita; dall’altra parte l’esercito dei vigliacchi, che non si ferma davanti a niente e a nessuno. Quello era rigore, tutto il resto non conta, non conta la dignità del signor Taylor, non conta la incolumità della sua famigliola. Conta solo essere lì e gridare di esserci e sentirsi più potenti, più forzuti, più forti di un signore e della sua famigliola. 
Vigliacchi! Vigliacchi! Vigliacchi!
Cantate forza Roma, alzando le mani al cielo come a sottolineare la vostra identità. Ma non rappresentate nemmeno l’ultimo dei sampietrini di quella città. E altro che identità! Siete il nulla, tante anonime particelle di niente, che messe insieme fanno fumo; e puzzano. Siete solo dei vigliacchi! Avete spaventato una famigliola, avete ferito un uomo nel suo intimo, avete superato ogni limite. 

E avete ammazzato il calcio, lo sport più bello del mondo. Lo avete seppellito sotto una terra putrida brulicante di vermi sbraitanti, vi avete apposto sopra una croce squadrata, adornandola di fiori recisi. Ogni vostro gesto, ogni vostra parola, ogni vostro sguardo, ogni vostro pensiero, in quei momenti di pura devianza umana, è stato il mesto funerale del pallone, celebrato da voi, ministri d’un culto tribale e senza Dio. È il culto di Madre curva, progenitrice di delinquenti, adepti sciocchi e sciagurati clown. 

Avete ammazzato il calcio, sì! Un’altra volta, per l’ennesima volta.

Ma quel che è peggio, avete infangato una città, il nostro Paese, tutti noi. Quelle immagini sono chiodi arrugginiti confitti sulle nostra coscienza; sono macchie indelebili nella storia, sportiva e non, del nostro Paese; sono il baratro d’una società, la nostra, costretta ad assistere a tutto questo, a mischiarsi con tutto questo, ad identificarsi, anche, con tutto questo.
È orrore puro! Orrore che alimenta il silenzio di chi, invece, dovrebbe solo urlare. Dovrebbero urlare le istituzioni, dovrebbero urlare i dirigenti, dovrebbero urlare gli altri tifosi (quelli veri), dovrebbe urlare la stampa, dovrebbero urlare le forze dell’ordine e chi amministra giustizia. E dovrebbero urlare giocatori e allenatori; anzi no, loro fanno solo danno… vero Mourinho? Insomma, dovremmo urlare tutti quanti e dire basta, una volta e per tutte, basta. E invece ognuno si limita a fare la sua particina, quella imposta dalle convenzioni o dai protocolli o dalla diplomazia. Oppure dalla coscienza, affinché rimanga pulita e ci distingua dal torbido che c’è in chi condanniamo a cinque minuti d’indignazione. 

“Noi sì, siamo meschini e anche vilì”, siamo tutti complici, perché non urliamo, non urliamo abbastanza. Non sarà mai abbastanza. 

All’aeroporto di Budapest è finito lo sport. Fine, stop. Un enorme sipario sdrucito è calato sullo spettacolo più bello del mondo, che deve continuare e che continuerà, ma non sarà più lo stesso spettacolo. Sarà sbiadito, ammorbato dall’opalescenza, sputtanato. Ma a noi piacerà lo stesso, lo guarderemo lo stesso, ci scommetteremo lo stesso, ne gioiremo o patiremo lo stesso, ne scriveremo lo stesso. Gattopardesco, il calcio non sarà più lo stesso e sarà sempre uguale. 
Tante volte abbiamo dimenticato, dimenticheremo anche questa volta e lo faremo in fretta, perché lo spettacolo continua e va di fretta, insegue date sold out e stratosferici audience. 
Ma io non dimentico. Non posso dimenticare. E se non dimentica uno, possono non dimenticare in tanti.
Vi prego, fatelo anche voi: non dimenticate e urlate, come sto cercando di fare io qui, tra le pagine libere di VXL. Al bar con gli amici, nei social, allo prossima partita allo stadio, in casa, urlate. Ditelo! 
Che questo non è il nostro calcio. Che questa non è la nostra gente. Che questi non sono tifosi. Che tutto questo non è accettabile. E che era rigore, sì. Dite pure questo, se volete, ma accettate chi la pensi diversamente, accettate che un arbitro possa averla vista diversamente.  Si chiama civiltà, è la madre di tutte le battaglie illuminate, è il crogiolo in cui arde la fiamma dell’umanità libera, è l’ultimo possibile millimetro che ci separa da quel baratro e all’aeroporto di Budapest è stata masticata come un chewing-gum e buttata per terra, affinché venisse calpestata ancora e poi ancora e poi ancora. All’aeroporto di Budapest la libertà d’un signore, di esercitare la propria professione, di portarsi dietro la propria famigliola, di vederla diversamente, è precipitata in un burrone senza fine; ma non ha perso l’equilibrio, no, è stata buttata giù da una manica di squilibrati. 

Ditelo, che sono squilibrati! 

Ditelo, diciamolo. Non lo so se servirà a qualcosa, ma almeno non ci saremo macchiati di connivenza, della peggior forma di connivenza: quella di chi s’indigna per i cinque minuti di cui sopra e poi si volta dall’altra parte. 
All’aeroporto di Budapest, all’Heysel, al Campo dei Puosi, al quartiere Marassi, al Massimino, in piazza San Carlo, all’Area di Servizio "Badia al Pino", a Tor di Quinto … Cosa importa che ora fosse! Cosa importa che giorno fosse! Cosa importa dove fosse!  È lì che Cristo s’è fermato e ha iniziato a sghignazzare Satana. 

Post scriptum: per quel che serve, scusa signor Taylor.