Quante volte abbiamo sentito dire nei talk che in Italia "l'ascensore sociale si è bloccato", vale a dire che le possibilità di riscatto di chi viene dalle classi più deboli si sono ridotte? Più nello specifico, si sottolinea che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, mentre la classe media scivola sempre più verso il basso. 

İl nostro campionato, che molti vorrebbero considerare come una bolla totalmente staccata dalle tendenze politiche e sociali del paese, si è verificata una tendenza analoga: negli ultimi anni, le neopromosse fanno sempre più fatica a mantenere la categoria per un anno; poche riescono a resistere per due; quasi nessuna arriva ai tre anni.

Contestualmente, nella Serie A ci sono alcune "abbonate alla lotta per non retrocedere". Sono club deboli che dovrebbero affrontare profonde rifondazioni e che invece si accontentano di vivacchiare a fondo classifica, sempre nella loro "confort zone" di distanza di 3-4 punti dalla zona retrocessione.

Infine, anche in Serie B, la maggioranza delle volte le squadre che salgono sono quelle che erano scese di categoria l'anno prima, oppure delle sorte di habitué della Serie A. La cosa vi è familiare?

Molti avranno in testa lo scialbo 0-0 che, tanto per dire, ha permesso alla Fiorentina e al Genoa di respingere l'assalto dell'Empoli di Andreazzoli (che ha poi firmato per i rossoblù. Chissà quanto saranno stati contenti i tifosi toscani...). In ogni caso, la Fiorentina qualche giocatore di spessore lo ha valorizzato ed ha giocato alcune partite che giustificavano il mantenimento della categoria.
Il Genoa, invece, una volta ragionevolmente certo di restare in A, ha ceduto il suo miglior giocatore (Piatek) ed ha ripreso quella che la sua dirigenza considera la dimensione del Grifone al momento: lotta per non retrocedere, eventualmente facendo qualche plusvalenza per rendere il bilancio più solido.
Vittima sacrificale è stato l'Empoli, che dava segni di risveglio dopo una prima metà d'anno passata fra tanti rimpianti (alcune partite in più nel girone d'andata avrebbe potuto vincerle) ed un girone di ritorno giocato oltre le possibilità che sono riconosciute a una neopromossa. A fargli compagnia in B saranno il Frosinone, mai capace di restare per due anni di seguito nella massima serie, e il Chievo, già vicino alla retrocessione diverse volte e con un'età media imbarazzantemente alta.

Del Chievo, ad esempio, ci andrebbe di parlare un po' di più: la società di Campedelli, nei primi anni in A, aveva lanciato gente come Julio Cesar, Eriberto-Luciano, Barzagli, Amauri, Legrottaglie, senza ovviamente scordare Pélissier. Passata quella fase, ancora all'inizio degli anni 2010 c'era qualche giocatore di qualità media, come Birsa, Hetemaj, Bradley. Ma gli ultimi anni erano un'agonia, con la squadra che, abbastanza certa di mantenere la categoria, era diventata un deposito per calciatori a fine carriera, in grado di salvarsi e poco più. Qualcosa di molto diverso dalla squadra arrivata (per penalizzazione degli altri, bisogna sottolinearlo) a giocarsi le coppe europee nel 2006.

Che la situazione si sia un po' incancrenita lo dimostra il quadro della lotta per non retrocedere, che diventa sempre più scontato: intanto si stabiliscono dei record negativi di punti dell'ultima in classifica, spesso a distanze abissali dalla prima a salvarsi. İn più abbiamo assistito, negli ultimi 4 anni, a una moria di neopromosse: fra il 2015 e il 2019, 7 su 12 di loro sono retrocesse dopo solo un anno di permanenza in serie A, per una media di quasi 2 a campionato. Non sembra molto, ma in realtà significa che nessuna di queste società ha un tempo sufficiente per valorizzare i propri talenti, che infatti spesso scappano in massa verso squadre più blasonate e altrettanto spesso si perdono. Certo, il FFP non aiuta ad avere un campionato "fluido", ma questa non può essere una scusa...

In più, a questo si aggiunge un divario sempre più netto fra le neo-retrocesse e le squadre "habitué" della serie B: quante volte abbiamo sentito esclamare "Dopo un anno di purgatorio, si torna in Serie A!".
In effetti negli ultimi 10 anni è successo alla Sampdoria, al Cagliari, al Bologna, al Palermo (prima del disastro societario odierno), all'Empoli, al Verona. Ma questo ha chiuso le porte ad altre squadre che stavano facendo belle cavalcate, come il Venezia e il Cittadella. Ed altre dopo aver mancato la promozione sono retrocesse o fallite, come il Latina o il Palermo (anche se per i siciliani la situazione è più complessa di così). Dal 2014 in poi, se escludiamo Carpi, Benevento, SPAL e Crotone abbiamo avuto tutte neopromosse che avevano giocato in A negli ultimi 10 anni. Ed anche quest'anno, abbiamo nel nostro campionato maggiore le neopromosse Brescia (in mano all'ex presidente del Cagliari Cellino), Hellas (che negli ultimi anni ha disputato la Serie A ad anni alterni) e soprattutto Parma e Lecce, due società che erano state quasi cancellate dalla giustizia sportiva. Possibile che nessuno abbia saputo approfittare di un loro momento di debolezza?

Ci si potrebbe chiedere quale problema ci sia ad avere un campionato con un numero relativamente ristretto di squadre che lo compongono. In realtà, questo si ripercuote tanto per cominciare sulla capacità di reclutamento di giocatori da parte dei club: in un campionato che vede sempre gli stessi protagonisti, è più difficile per le società di fare un'opera capillare di scouting e per quelle che militano in serie B di valorizzare i talenti della loro zona. Dei convocati U30 di Mancini per Grecia e Bosnia, i soli İmmobile, Izzo, Insigne e Verratti (mettiamoci anche Donnarumma infortunato) vengono dalla zona a Sud di Roma. Di questi, gli unici ad iniziare la consacrazione con squadre meridionali sono Insigne, Immobile e Verratti (Pescara), a cui va aggiunto il "crotonese d'adozione" Florenzi. Tutti e quattro hanno giocato in Serie B, tutti e quattro sono stati formati da Zeman. Quattro di loro vengono da Napoli, al momento l'unica città del Sud Italia ad esprimere una squadra di alto livello in serie A. Chi scrive non è un neoborbonico sfegatato, però fa riflettere il fatto che quasi la metà del paese non ha una rappresentanza forte nella nazionale.

Ma un'alternanza farebbe bene anche alle stesse società. Prolungare una sorta di agonia, con squadre sempre più vecchie e prive di talento per il solo gusto di dire "Siamo in serie A" non è sano.
Oltre al già citato Chievo, abbiamo l'Udinese e il Genoa che, esclusa la valorizzazione di 2-3 talenti, non hanno più fame, non sono motivate quando scendono in campo la domenica. E non cito due società a caso: i friulani giocavano le coppe europee e valorizzavano talenti a non finire fino a 6-7 anni fa. Erano, in un certo senso, un'Atalanta ante litteram.
Adesso invece, se escludiamo Rodrigo de Paul, manca il talento e la "garra" da parecchio tempo. Idem il Genoa: dopo anni di valorizzazioni e di vendita alle grandi di giocatori di spessore (in particolare le milanesi hanno attinto a piene mani dal patrimonio di Preziosi), da qualche anno si arriva sempre sull'orlo del baratro, sopravvivendo grazie alla "generosità" dei grandi club, che regalano giocatori a fine carriera o non più funzionali al loro progetto tecnico. A nessuno piace vedere la propria società retrocedere, è chiaro. Però il Chievo si sta avviando verso un processo di rifondazione radicale che, siamo certi, porterà i frutti sperati. La Samp dalla serie B è ritornata molto agguerrita, sempre in lotta per un posto in Europa e con giovani di spessore. Siamo sicuri che questo potrebbe succedere, dopo lo choch per la retrocessione, anche ad altre squadre: tagliare i giocatori oltre una certa età e magari valorizzare i giovani del proprio vivaio/vivai altrui, che non sono mai da sottovalutare.

Un meccanismo che siamo ragionevolmente certi che farebbe bene anche alla nazionale e ai club maggiori, pronti ad investire in giovani formati nelle serie minori e con l'esperienza che certe volte sembra mancare ai pari età della Serie A.
Sperando che essa non sia più un club per pochi adepti.