8 aprile 2020. Oggi Agostino Di Bartolomei, avrebbe compiuto 65 anni. “Ago”, “Diba”, “Agostino gol”, il ragazzo perbene di una vecchia Roma popolare, era il capitano giallorosso, l’idolo dei tifosi, un uomo sensibile.
Serio, educato, mai eclatante. Agostino era un eroe silenzioso, che spaventava gli avversari solo per mezzo del suo talento, il suo tiro potentissimo, l’intelligenza. Se aveva qualcosa da dire, non si tirava indietro ma lo faceva sempre con la giusta misura, per non mancare di rispetto.
In campo, dal 76’ all’84’, fu il leader tecnico e umano della Roma, il vice di Liedholm in campo. L’allenatore svedese lo ritenne ben presto titolare inamovibile e risolse l’unica pecca che si potesse imputargli: essere un giocatore lento.Lentezza che Di Bartolomei compensava con la raffinatezza delle sue giocate, il carisma, la continuità di rendimento, la grinta ma, soprattutto, la consapevolezza tattica frutto di una capacità di posizione al di fuori del comune. 

Ago era più veloce degli altri con il pensiero, non a caso, sul finire della sua carriera fu arretrato a libero. Gianni Mura riguardo a questo cambio di posizione scrisse:
“Un destino che tocca solo a giocatori di costruzione, con un grande senso del gioco collettivo. Come Beckenbauer, come Scirea che mi viene automatico accostare ad Agostino per i silenzi e per la stessa visione di un calcio semplice, pulito».

Sotto la presidenza Viola, a Roma conquistò tre Coppe Italia e uno scudetto, ma la sua notte più importante la visse il 30 maggio del 1984.
Giallo come il sole, rosso come il cuore in Curva Sud campeggia uno striscione minimale, epico. L’erba brilla è bagnata, tagliata da poco, fresca. Lo Stadio Olimpico è pieno come non si è mai visto prima, l’atmosfera è densa di adrenalina. La città eterna è ferma, tutta la vita di Roma è in quello stadio, tutta Roma è in quello stadio: si gioca la finale di Coppa Campioni contro il Liverpool.
I giocatori scendono in campo sotto il suono dei tamburi, sembra si giochi al Colosseo. Al Circo Massimo lo si sta già facendo, perché chi non ha trovato il biglietto ha comprato due birre e si è aggregato a tutti gli altri sotto le luci di un maxi-schermo e il live di Venditti.
Dal sottopassaggio sbucano l’italiano brasiliano Bruno Conti, il portierone Tancredi, Liedholm, che si liscia i capelli, per non dare a vedere l’emozione che lo sta consumando nonostante l’aplomb nordico, alla spicciolata tutti gli altri, poi “Diba”.
Agostino si reca al centro del campo, è imperturbabile, avvolto dal frastuono che proviene dagli spalti. Lui romano e romanista è l’unico a non mostrare alcuna impressione, tutto in fiamme intorno, e lui impenetrabile. Nascondeva tutta la passione che nutriva per quel popolo e per quei colori, tutta la voglia di farli impazzire di gioia.

I novanta minuti sono segnati dalle reti di Neal e Pruzzo, si decide tutto ai calci di rigore. Falcao non si presenta dal dischetto, Ago, freddissimo, segna ma le pantomime di Grobbelaar destabilizzano invece Bruno Conti e Ciccio Graziani e consegnano ai Reds la Coppa, la quarta della loro storia. Per il capitano il dolore è troppo grande, insopportabile. È finita. Indosserà la maglia giallorossa, per l’ultima volta, nella vittoriosa finale di Coppa Italia contro il Verona.
La Curva Sud lo saluta:
«Ti hanno tolto la tua Roma, non la tua curva». 

Dopo la Roma, decide di accompagnare il suo mentore, il barone Liedholm, a Milano. Gioca all’ombra della Madonnina per tre anni. Poi Cesena e Salerno, prima del definitivo ritiro nel 1990. 
Il 30 maggio del 1994, esattamente dieci anni dopo quella maledetta finale, alle 10:50, nella sua casa di Castellabate, estrae una Smith & Wesson calibro 38. La carica, preme il grilletto e spara. Un colpo dritto al cuore, quel cuore che per tutta la vita ha messo a servizio della sua città e dei suoi tifosi. Il cuore rosso cantato in quello striscione.

Agostino, uomo sensibile è stato vittima del tramonto, fuorviato da un mondo che ha prima vissuto e dal quale poi si è ritrovato lontano, come un estraneo. È rimasto sospeso nel purgatorio dei ricordi, senza mai trovare una precisa collocazione in un nuovo presente. Un dramma esistenziale. Un’uscita nel dolore da capitano silenzioso.
«I veri capitani possono morire o anche scegliere di morire, ma dimenticarli è impossibile». Gianni Mura



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