Quando Ben Lyttleton (illustre e ben navigato giornalista sportivo londinese, autore, tra le altre cose, di scritti pubblicati sul “The Guardian”, sul “Time”, su “Sports illustrated” e su “Four four two”) incontra Thomas Tüchel gli è subito chiara una cosa: il tedesco è differente, è originale. Nel momento in cui varca la soglia del ristorante italiano dove i due si sono dati appuntamento, locale situato vicino al Signal-Iduna Park e agli uffici del Borussia, l'allenatore indossa un maglione grigio sotto una giacca di pelle nera, jeans slim-fit molto aderenti, scarpe da ginnastica ed un cappellino da baseball. Non sembra un quarantenne, ma un ragazzino attento alle mode del momento. In realtà è uno dei ct. più interessanti e promettenti in circolazione.

È un giorno imprecisato del 2017, ma precedente all'attentato dell'undici aprile, data in cui tre ordigni esplosero contro il pullman del Borussia Dortmund ferendo Marc Bartra ed un poliziotto di scorta alla squadra. Tüchel è alla seconda stagione alla guida dei gialloneri, sono ancora lontani screzi e incomprensioni con la dirigenza (divergenze che saranno in parte legate a quel tragico evento) e anche se non ha ancora conquistato alcun trofeo, gli ottimi risultati conseguiti come allenatore capo del Magonza, uniti ad un approccio altamente innovativo al mestiere, gli hanno già valso il soprannome di “der Fuβball–Wissenschaftler”: lo scienziato del calcio.

Ben ne vuole sapere di più. Vuole capire se il classe 1973 nativo di Krumbach, laureato in economia aziendale e amante della matematica applicata al calcio, già famoso per aver cambiato modulo alla propria squadra fino a sei volte nell'arco di un'unica partita, ha intenzione di reinventare ulteriormente il gioco spingendosi oltre i limiti invisibili, i muri invalicabili dettati dalla logica e costruiti dalla ragione, le barriere che hanno condizionato i suoi predecessori e i suoi attuali colleghi. Vere e proprie muraglie, in alcuni casi, come l'assurda ipotesi di difendere a due soli uomini.

Lyttleton vuole scoprire, insomma, se Tüchel ha effettivamente intenzione di varcare in ambito calcistico i confini tra il noto e l'ignoto, se ha intenzione di sperimentare nel buio e, in caso di risposta affermativa, cosa lo spinge ad operare in quella direzione.

In verità il tedesco, pur ammettendo di considerare affascinante l'ipotesi di difendersi a due, non sta affatto tentando di rivoluzionare il gioco del calcio per il gusto di farlo, <no! Decisamente no>, bensì cerca di porsi sempre un passo avanti agli avversari e l'amore che ha da sempre mostrato per il gioco posizionale, quel tipo di gioco, appunto, votato ad acquisire una posizione di vantaggio qualitativa e quantitativa alle spalle delle linee di pressione nemiche, principalmente attraverso il mantenimento e lo smistamento del pallone accompagnato da movimenti predefiniti, ne è ovvia e diretta conseguenza.

Ai tempi di Magonza, da attento e meticoloso studioso quale è (una delle tante caratteristiche, oltre all'introduzione dei “rondos”, che gli ha fatto guadagnare i paragoni con Guardiola), per acquisire questo vantaggio abituava i suoi uomini a disporsi in campo in maniera sempre diversa, replicando in allenamento lo stile di gioco di ciascun avversario, in modo tale da individuarne i difetti intrinseci e metterli a nudo in partita. L'ottica era, ed è ancora, quella di <adattarsi, adattarsi e ancora adattarsi, in modo da trovare le soluzioni più velocemente degli altri>. Adattarsi pensando fuori dagli schemi, parola d'ordine “querdenken”.

Stupisce, allora, (o forse non del tutto, dato che per pensare fuori dagli schemi occorre essere almeno un po' fuori dagli schemi) che un allenatore così camaleontico, sempre dedito alla ricerca di un vantaggio per sconfiggere la squadra avversaria, non valuti la bontà del proprio operato esclusivamente attraverso i risultati, bensì anche in considerazione del gioco espresso: <la mia filosofia è di stampo estetico: estetica significa controllare il pallone, il ritmo, attaccare ogni minuto e cercare di segnare il maggior numero di reti possibile. [...] Ogni club ha un suo spirito. Ci sono alcuni club, come l'Ajax, l'Arsenal, Il Barcellona e il Milan, che amano il bel gioco. Non è solo questione di vincere, ma anche di come vincere e di come giocare>. Se una società con una filosofia di gioco diversa lo contattasse dovrebbe <essere onesto con sé stesso e chiedersi se è la persona col carattere e l'approccio giusto per quel club e per rendere felici quelle persone>.

Sorprende anche che si veda <più come qualcuno che accompagna i talenti, le loro personalità e i loro differenti caratteri>, più come la persona <responsabile per il tempo e la velocità alla quale imparano> e che pone <loro gli stimoli di cui necessitano>, che un semplice tattico. Tüchel si ritiene un vero e proprio insegnante, in poche parole. 

Di sicuro, di talento tra le sue fila ne ha trovato tanto ed è convinto che esso sia un dono straordinario, inscindibile dall'obbligo morale di svilupparlo, ma non pensa di potersi limitare a ciò. Per sua stessa ammissione, non può limitarsi a motivare ed istruire sportivamente i suoi atleti senza farsi carico anche del compito di migliorarne la personalità, perché uno spogliatoio poco coeso, senza regole, difficilmente otterrà buoni risultati. Ne è conscio e lo è stato fin dal primo giorno da allenatore capo del Mainz, quando mise subito in chiaro che dai suoi giocatori si aspettava innanzitutto rispetto, necessario per salvaguardarne la panchina, ma soprattutto l'autorevolezza. Li obbligò, all'inizio con qualche difficoltà, a cenare assieme e a stringersi la mano prima di ogni sessione di allenamento. Può sembrare ridicolo, ma ebbe ragione: rafforzò il loro spirito di squadra e la sua credibilità. I risultati arrivarono di conseguenza.

Oggi sono trascorsi due anni da quell'intervista e poco più di dieci da quando Tüchel ha debuttato da allenatore in Bundesliga. Al Psg si trova a dirigere alcuni dei più grandi campioni del nuovo millennio: Mbappé, Neymar, Di Maria, Thiago Silva, etc. Qualcuno di loro è all'inizio di una sfavillante carriera, qualcun altro ha già toccato il massimo picco di rendimento, certamente, però, la qualità del materiale umano a sua disposizione è di altissimo livello. La tanto agognata Champions League sembra essere a portata di mano, ma la sensazione è che al tedesco non basterà confermarsi un ottimo tattico o un pioniere dell'allenamento differenziale, né sarà sufficiente inventarsi Marquinhos “falso difensore centrale” o far esercitare i suoi uomini in campi dalle forme più disparate (magari ancor una volta con delle palline da tennis in mano), occorrerà qualcosa di più. Servirà mettere ordine tra le tante prime donne che compongono la squadra.

La dirigenza, quella stessa proprietà volenterosa di vincere ad ogni costo che in passato non ha concesso tempo, gli ha confermato la fiducia nonostante una prima annata ben al di sotto delle aspettative. Adesso che i presupposti sono stati posti, tocca a lui ripagarla.

(dialoghi tratti da “Edge, leadership secrets from football's top thinkers” di Ben Lyttleton, dal “Die Zeit” e da una conversazione tra Tüchel e Hans Ulrich Gumbrecht, docente dell'università di Stanford)