Nel corso dei miei anni più volte andai a Superga, rendendo omaggio ai Campioni Invincibili del Grande Torino, consapevole del loro valore. Nel mio immaginario non riuscivo a vedere uomini, ma immagini sfocate, delle figure trascendenti, quasi degli eroi mitologici, dei miti. Sarà perché non li avevo conosciuti direttamente, ma la mia sensazione della tragedia umana, di quei corpi straziati, di quella folla ai funerali, non trovava una collocazione precisa nel mio animo, nonostante provassi il dovuto dolore per ciò che realmente fu quell’immane disastro.
Avevo visto fotografie, ascoltato racconti, persino udito le loro voci registrate, visto tantissimi filmati con goal spettacolari di Gabetto, Mazzola e altri, ed ovviamente le immagini dell tragedia. Potevo immaginare gli ultimi minuti del volo, quegli ultimi 40m. prima dello schianto a 180 Km /h contro la parete della Basilica, gli attimi di terrore del pilota e dei passeggeri prima dello schianto, lo strazio dei parenti, dei loro cari, nel vedersi restituire dei corpi orribilmente martoriati.

Il terribile incidente fu dovuto, sembra, da un errore di rotta di pochi metri, causato da una raffica di vento libeccio all’atto della virata per allinearsi alla pista di atterraggio; o chissà per quale causa; d’altronde quale importanza ormai può assumere la causa?
Fino a quei giorni queste immagini scorrevano nella mia mente come un qualcosa di irreale, come una storia raccontata da tanti. Queste erano le mie impressioni, quando un giorno decisi di capire quale catastrofe si ricordava con un dolore così forte.
Mi documentai, lessi tutto il leggibile su quei fatti, compresi la scomparsa di quei campioni tanto cari alla gente a quei tempi in cui le persone avevano così poco: un goal del Torino era come una carezza sul loro volto affaticato: molti me lo raccontarono.
I Granata erano il fiore all’occhiello di tutta la Nazione. Infatti lo stesso annuncio alla radio della loro caduta dichiarava come l’avvenimento riguardasse tutto il Paese.
Quella squadra era amata dagli sportivi e dalla gente, ecco perché quella folla ai funerali. Eppure non era solo quello l’essenza di ciò che volevo comprendere, ed insistetti nella mia ricerca della verità.
Finchè il 4 maggio 2019 una mia amica mi parlò della tomba del Grande Torino e mi portò a rendere omaggio proprio al loro sepolcro.
Al pomeriggio ci recammo al Cimitero Monumentale di Torino, talmente enorme che dovemmo salire su di un pulmino per recarci sul posto. Passammo tra viali e tombe che parevano monumenti. Sfilammo anche una serie interminabile di piccole tombe a terra, quelle dei partigiani. Dal numero delle lapidi visibili tra le vie della città non mi ero reso conto della quantità complessiva dei caduti per la Liberazione e vederli tutti insieme faceva molta impressione. Pensai a lungo a Bruno Neri, il giocatore del Torino  partigiano che si rifiutò a Firenze nel '31 di fare il saluto fascista alle autorità e poi morì con le armi in pugmo. Dopo circa venti minuti di autobus ci fecero scendere, eravamo arrivati. Un enorme tomba a forma di torre molto alta, di un famoso tenore di Torino, ci copriva la visuale. Sorpassata quella, ecco la Tomba del Grande Torino.
Mi trovai al cospetto di un sepolcro loculare, ed ogni cella conteneva i resti di un giocatore. Ciascuna pietra tombale riportava il nome scolpito nel marmo e verniciato rosso granata. La visione di tutti quei loculi mi colpì: le pietre, sapevo, nascondevano i loro corpi, ed istantaneamente le mie fantasie epiche si trasformarono nel grave senso della morte.
Guardai l’ora: nello stesso momento in cui il Capitano del Torino, Andrea Belotti, leggeva a Superga i nomi degli Invincibili sulla stele commemorativa, io li leggevo sulle pietre nel Cimitero Monumentale di Torino.
Non saprei dire perché, ma davanti a quelle tombe capii ciò che non compresi di fronte a una lapide commemorativa. Rimasi attonito, incredulo, stupito della verità ineluttabile che inaspettatamente mi colpiva in pieno volto. Là, in quei momenti, compresi che quegli eroi, quei bravissimi giocatori erano periti violentemente sul colpo, in uno schianto di un attimo, a pochi chilometri da casa. Compresi il senso di ciò che in tanti anni non ero riuscito ad intuire. Intuii a fondo il significato di quella disgrazia.
Questi pensieri scorsero velocemente nella mia mente, quando mi accorsi di immaginare come in un’allucinazione, ogni pietra tombale avanzare verso di me con il nome color del sangue, scritto piccolo, quasi a significare la persona, mentre il cognome urlava il campione.
Mazzola, Gabetto, Maroso ….. nella mia mente sembravano volermi scuotere perché capissi ancora meglio.
Infine ebbi la visione totale della dimensione del disastro, di quell’ orribile disastro. Era giunto il crepuscolo, me ne andai turbato, incapace di parlare.

Passarono ore di relativa quiete, fino a notte, quando la Mole, illuminata di granata come da un po' di anni, per il volere di un sindaco di ampie vedute, splendeva orgogliosa a salutare la città e gli Invincibili, dando slancio all’ animo ed alla vista, là, dove l’occhio corre a Superga.
Ed il giorno dopo mi apprestai a visitare il Museo del Grande Torno, con un nuovo spirito capace di ascoltare il respiro e i sussurri che si sprigionavano da quelle maglie e da quegli oggetti. Non era la prima volta che visitavo il museo, ma quella volta ne compresi il significato intrinseco.
Giunti nella sala del Grande Torino vedendo quei cimeli, quei rottami contorti dell’aereo, le loro valige, i loro oggetti personali, mi colse un nodo in gola ed ebbi pena di quegli uomini morti in quel modo, di ritorno da una partita di calcio, giocata per adempiere ad una promessa fatta ad un amico, ad un altro calciatore, Ferreira del Benfica, in difficoltò economiche. Il Torino aveva partecipato a Lisbona alla sua festa di addio al calcio. Addio che si concluse al Comunale di Torino, con la partita tra il Torino Simbolo e il River Plate.

La maglia della squadra argentina era bianca con una striscia granata in diagonale. Da allora la seconda maglia del Torino riporta gli stessi colori, in segno di eterna amicizia.