C'era una volta la Serie C. La C1, con i suoi due gironi, e la C2 con i suoi quattro. Un campionato che veniva considerato minore, locale, ma che aveva una sia dignità. Col passare degli anni la Serie C ha perso appeal e ha incrementato le sue difficoltà e i suoi problemi. Schiacciata fra la Serie A e altri sport ha visto diminuire rapidamente il suo seguito. E così, come tutte le volte che una cosa in Italia deve essere rilanciata, almeno negli ultimi decenni, si è deciso di prendere la situazione di petto e di... cambiare nome. Da Serie C, un nome declassificante, si è passati a Lega Pro, che sta per Lega Italiano Calcio Professionistico. Un nome che, in un paese normale, raggrupperebbe tutte le società di calcio professionistico nazionali, ma in Italia è il nome roboante della terza serie professionistica: non l'ultima ma, forse, la più critica. La Lega Pro, infatti, si trascina dietro problemi annosi ai quali se ne sono aggiunti di nuovi, dettati dalla crisi economica che sta sfiancando l'Italia negli ultimi anni. Il fatti è che molti di questi problemi sono, in realtà, situazioni non contingenti, legati alla struttura stessa della Lega Pro e non risolvibili. Il solo, reale irrisolvibile problema è la crisi economica che non permette gli investimenti “a babbo morto” che hanno retto il mondo del calcio professionistico sino ai primi anni duemila. In una situazione che vede la sola Juventus, fra le società di calcio professionistico, proiettata in un orbita internazionale e poche squadre di Serie A avere una situazione economico finanziaria sostenibile, non si può pensare che, due serie più in basso, si possa avere una situazione migliore. E il problema economico non è risolvibile per alcune situazioni contingenti che non sono risolvibili. Innanzi tutto il fatto che un calciatore professionista ha una carriera che gli permette di “lavorare” sino a circa quarant'anni. Se prendiamo in esame la situazione è facile capire che un giocatore che inizia a giocare da professionista a 16 anni, ammesso che giochi fino a quaranta (!!!) ha lavorato per 24 anni e ha versato 24 anni di contributi. Occorre, però, pensare di dover arrivare almeno a quarant'anni di contributi e, quindi, versare il doppio dei contributi per metà del tempo. A spanne, direi, che annualmente, con uno stipendio minimo e per una pensione da fame, un calciatore professionista dovrebbe costare alla sua squadra circa sessanta mila euro all'anno. Venti giocatori a sessantamila euro all'anno sono un milione e duecentomila euro. Se aggiungiamo le altre spese - come trasferte, materiale, centri sportivi, affitti - e gli stipendi di tutti gli altri dipendenti, dai dirigenti ai magazzinieri, diciamo che una squadra di calcio professionistico ha un costi che si aggira attorno ai quattro o cinque milioni di euro all'anno. Se consideriamo una stagione di venti partite annue in casa, per arrivare anche solo a tre milioni all'anno, servono centocinquantamila euro a partita, che equivalgono ad un incasso dato da quindicimila spettatori di media a partita per un costo medio di biglietto di dieci euro. Salta subito all'occhio che questo è un problema. In molti casi, infatti, la squadra di Lega Pro, che spesso costa ben più di tre milioni di euro all'anno, ha un bacino di utenza e uno stadio, che non permette incassi simili. Qualcuno potrà pensare che si possa ovviare a ciò con le sponsorizzazioni, ma in Italia le sponsorizzazioni sono difficili da trovare anche in Serie A, figuriamoci in Lega Pro. Il discorso è complesso, ma semplificabile con un esempio: in un posto come gli USA, dove l'economia ha una struttura, una complessità e una solidità ben diverse da quelle italiane, lo sport professionistico è per poche società e per pochi individui. Si tratta di un sistema capitalisticamente virtuoso e socialmente non virtuoso. Esiste un sistema locale legato ai college e alle università, nei vari sport. Ma non esistono decine e decine di squadre professionistiche, per il semplice motivo che la società non è in grado di sostenerle. Non lo è perchè è il sistema capitalistico stesso a porre dei limiti all'esistenza delle società sportive professionistiche. Oltre un certo numero non c'è sostenibilità. In Italia si cerca di ovviare questo problema con una redistribuzione che, in realtà si scontra col sistema capitalistico, come cozza in ogni altro ambito della società. La redistribuzione è un sistema virtuoso, ma è un sistema socialistico, che non coesiste con il sistema capitalistico. Alla fine la forzatura porta al crollo del più debole fra i suoi sistemi. E in un economia globalizzata di stampo capitalistico, quello che crolla è il sistema socialista di redistribuzione. Per questo motivo la Lega Pro ha insito, nel suo modo di essere e nell'evoluzione economico-sociale del Paese, il germe della sua insostenibilità. La totalità del calcio professionistico italiano ha un problema di sostenibilità, tanto che nemmeno i capitali stranieri (vedi Roma) riescono a rendere competitiva e sostenibile economicamente una squadra se questa non divine strutturalmente virtuosa e in grado di sostentarsi. Il calcio italiano ha necessità di ridefinirsi, partendo dalla massima serie. Una mano a rendere più indolore il passaggio sarebbe la creazione delle seconde squadre delle società maggiori. Un altra modalità sarebbe la ridefinizione degli status dei calciatori professionisti. Ma il reale problema è l'insostenibilità, per l'economia italiana, di una sistema professionistico di questa portata. Quindi, così come il calcio, a livello europeo, va verso una superlega professionistica internazionale, a livello nazionale dovrà scegliere di ridefinirsi e ridimensionarsi, dandosi una nuova dimensione dilettantistica, con una maggiore dignità, e mettendo a tacere i tanti, troppi campanilismi estremi. L'Italia è un paese dove, sin dal tempo dei comuni, due località vicine sono in lotta fra loro. Il calcio è solo un nuovo campo di battaglia dove portare certi campanilismi. Ma questa divisione non è solo dannosa dal punto di vista dell'ordine pubblico, come spesso si vede in occasione degli scontri fra opposte tifoserie, ma anche dal punto di vista economico, portando alla dispersione delle risorse locali. Ecco perchè la Lega Pro, piaccia o meno, è un fallimento annunciato. Con buona pace di chi non lo vorrebbe, perchè il dio denaro non guarda in faccia nessuno e ciò che differenzia il calcio professionistico da quello non professionistico è proprio il fatto che i professionisti fanno del calcio il proprio mestiere, con cui vivere e, per vivere, in un sistema capitalistico, servono i soldi.