E’ entrato in vigore, a partire dal 7 settembre, dopo essere stato approvato dal presidente del consiglio dei ministri Giuseppe Conte, il nuovo DCPM. Fra le tante limitazioni che ancora condizioneranno la nostra vita a causa della pandemia, gli appassionati di calcio non hanno potuto fare a meno di buttare l’occhio sulla mancata riapertura degli stadi, e a molti da quell’occhio sarà scesa una lacrimuccia, soprattutto perché, vista la riapertura delle scuole, in parecchi si erano illusi che lo stesso destino sarebbe potuto toccare anche agli stadi: purtroppo (o per fortuna, impossibile prevedere se la riapertura sarebbe potuta coincidere con una esponenziale impennata della curva dei contagi) così non è stato. Come detto non sappiamo se questa decisione si rivelerà positiva o meno per il Paese, sicuramente toglierà al calcio la sua vera essenza, e ogni stadio sembrerà un po’ una briciola di pane caduta, che non è stata raggiunta dalle formiche.

Non sempre però la presenza di tifosi allo stadio è stata motivo di festa, e talvolta si sono verificati eventi funesti, che hanno segnato o troncato la vita di molte persone. Ricordiamo alcuni di questi avvenimenti, cercando di riflettere su quante volte, sicuramente troppe, lo sport, in questo caso il calcio, è diventato strumento di violenza e devastazione.

Una delle prime tragedie che hanno investito il mondo del calcio risale ad oltre un secolo fa, nello specifico al 1902, quando all’Ibrox Park di Glasgow si disputa una partita fra nazionali: Scozia e Inghilterra si sfidano per il Torneo Interbritannico, sostenuti da oltre 68 mila spettatori. Al minuto 51 la Western Tribune Stand, appena costruita, crolla, dopo le piogge della notte precedente, per il peso eccessivo, causando la caduta di più di 500 tifosi da circa 12 metri, e la morte di 25 di questi. Fu il primo incidente di tale gravità nel calcio britannico, oltre che un segnale di avviso per il futuro. All’epoca la tribuna era ancora costruita in legno, sorretta da un telaio a travi in acciaio: troppo poco per sostenere un gran numero di persone; lo stadio venne ristrutturato con tribune realizzate in cemento armato, che vennero in seguito adottate da sempre più club e fu una vera e propria rivoluzione, seppur impregnata di sangue. Tutto ciò però non basterà a scongiurare nuovi avvenimenti di questo tipo.

Sono passati quasi settant’anni dalla prima tragedia dell’Ibrox, e stavolta in campo si disputa la partita più importante di scozia, il derby fra Rangers e Celtic, che porta ben 75 mila tifosi allo stadio. La partita rimane imbrigliata sullo 0-0, fino al minuto 89, quando Jimmy Johnstone, ala e bandiera del Celtic, porta in vantaggio i Bhoys, suscitando l’ira dei tifosi avversari che già stavano abbandonando lo stadio. All’ultimo però i Rangers trovano il pareggio con Colin Stein, poderoso centravanti, scatenando la gioia di molti sostenitori che, secondo alcuni rientrarono nello stadio, scontrandosi con molti tifosi, che invece stavano uscendo, sulla scalinata 13, mentre secondo altri la causa fu la caduta, forse di un bambino in braccio al padre, che portò alla reazione a catena, da cui scaturirono 66 morti e centinaia di feriti. Le successive indagini portarono alla conclusione che in realtà la tragedia derivò dall’inadeguatezza delle uscite, con le persone che stavano andando tutte nella stessa direzione al momento del crollo. Già tuttavia diversi anni prima del doloroso ‘’bis’’ dell’Ibrox, il calcio inglese aveva subito un altro terribile evento.

Il 9 marzo 1946, a Burnden Park, nel sesto turno dell’FA Cup, il Bolton ospita lo Stoke City, trascinato fin lì dal grande Sir Stanley Matthews. L’astinenza da ‘’football’’ che seguiva la fine della guerra, e la presenza del futuro pallone d’oro, spinsero numerosi appassionati allo stadio, circa 85 mila, a fronte dei 65 mila posti disponibili, fra l’altro con una tribuna inagibile. Molti tifosi, impazienti di entrare, forzano le barriere o scavalcano, facendo precipitare gli spettatori più in alto; nel caos che ne consegue molti verranno calpestati dalla folla: sono 33 le vittime, oltre 500 i feriti.

Veniamo dunque al 1985, per quella che è sicuramente la più nota, soprattutto ai tifosi italiani, fra le stragi legate al calcio: la finale della Champions League di quell’anno vede opposti la Juventus di Michel Platini e il Liverpool di Kenny Dalglish, ma la vera partita è sugli spalti dello stadio Heysel, a Bruxelles. La situazione restò tranquilla fino circa alle 19:20, quando alcuni hooligans del Liverpool, ubriachi, cominciarono a caricare il settore Z, ruppero la rete che li separava dagli juventini, che intanto cercavano di scappare verso il muro, stringendoli in una morsa: il muretto crollò, alcuni finirono schiacciati dalle macerie, altri dalla folla, altri ancora preferirono gettarsi nel vuoto per evitare il soffocamento, coloro che riuscirono a scappare trovarono l’opposizione dei tardivi e ridicoli poliziotti. I morti furono 39, di cui 32 italiani, per una tragedia che forse il calcio inglese ha dimenticato troppo presto, forse perché non avvenne in casa propria, pur essendone i tifosi reds causa diretta.

Sempre gli ultras del Liverpool furono protagonisti quasi quattro anni dopo, il 15 aprile 1989, a Sheffield, nel South Yorkshire, dove il decadente Hillsborough Stadium avrebbe dovuto farsi teatro della semifinale della coppa d’Inghilterra fra appunto la squadra in rosso e il Nottingham Forest. Questa è forse la peggiore fra le tragedie che hanno investito il mondo del pallone, non solo per l’enorme numero di vittime, 96, ma perché coincise con un deplorevole tentativo da parte dei giornali di infangare la realtà dei fatti, incolpando i tifosi, piuttosto che la codardia delle forze di sicurezza, in una delle pagine più nere della storia inglese, non solo in quanto al calcio.

Torniamo però al 1985: questo fu uno degli anni più bui per il calcio europeo, in particolare quello inglese. Detto del disastro belga, un paio di settimane prima, l’11 maggio, durante una gara di Third Division fra il Bradford City ed il Lincoln City, si verificò, al Valley Parade, quello che è passato alla storia come ‘’il rogo di Bradford’’. Al minuto 40 del primo tempo, probabilmente, ma non è stato accertato, per una sigaretta, o un fiammifero, il settore G dello stadio cominciò a prendere fuoco; l’arbitro venne immediatamente avvisato dal guardalinee, ed interruppe la gara. La tribuna, risalente al 1908, era in legno, con una copertura sigillata in catrame e bitume che, sciogliendosi, andava ad alimentare le fiamme. I racconti dei sopravvissuti parlano di enormi difficoltà nel respirare a causa del fumo: molti tentarono di scappare sul terreno di gioco, altri aiutarono la polizia, fra cui i calciatori e l’allenatore del Bradford, Terry Yorath, ma non vi erano estintori, eliminati per prevenire atti di vandalismo degli hooligans; molti riuscirono a scavalcare il muro eretto fra il campo e la tribuna, che per fortuna non era invalicabile come in altri stadi. Il bilancio fu comunque terribile: 56 morti e 265, con lo stadio che venne chiuso per circa due anni per essere ristrutturato e modernizzato. In quello stesso terribile giorno, tuttavia, ad alcuni chilometri di distanza, in particolare al St. Andrew Ground Stadium il Birmingham si gioca, nell’ultima giornata di Division Two, l’accesso alla massima serie, che otterrebbe sperando in una sconfitta dell’Oxford e battendo il Leeds, in una sfida già storicamente sentitissima. Al termine della gara, chiusa con il risultato di 1-0, gli scontri tra hooligans che avevano contraddistinto la partita culminarono con un invasione di campo che la polizia respinse in ogni modo possibile, anche con l’utilizzo di cavalli: il crollo di un muretto travolse molti tifosi, mentre fu colpito alla testa il piccolo Ian Hambridge, quindicenne, alla sua prima partita allo stadio. Il bilancio finale parla di quasi 200 feriti e 40 arresti, in un mese che dell’essenza del calcio, ha racchiuso ben poco.

Fuori dall’Inghilterra una delle peggiori vicende che hanno investito il calcio europeo risale al 1982, quando al Central Lenin Stadium, al secolo stadio Luzhniki, oltre 15 mila spettatori erano accorsi, a dispetto dei 10 gradi sotto lo zero, per vedere i padroni di casa, lo Spartak Mosca, squadra che allora rappresentava il popolo umile e lavoratore, contro gli olandesi dell’HFC Harlem. I sovietici passano in vantaggio al minuto 16 con il gol di Edgar Gess, con la partita che, anche a causa del clima, si rivela non particolarmente esaltante, al punto che, a circa dieci minuti dal termine molti tifosi, sicuri del risultato, decidono di abbandonare lo stadio per accelerare il rientro a casa (era stata resa disponibile una sola uscita). Al minuto 85 però Sergei Shvetsov sigla il definitivo 2-0, scatenando le urla dei sostenitori ancora presenti che convincono molti a tornare indietro: questi vengono però bloccati dalla polizia, creando un sovraccarico sulle scale, che cedono, causando, ufficialmente, 66 morti e 61 feriti, circa 300 vittime secondo altre fonti. La causa di questo avvenimento fu certamente, oltre al tracollo delle scale, l’organizzazione superflua e l’impreparazione delle forze dell’ordine, con diversi tifosi che rimasero intrappolati allo stadio per diverse ore dopo il termine della gara.

Lasciamo l’Europa per dirigerci in Sud America, dove il ‘’Superclàsico’’ è, storicamente, una delle partite più calde, nonché pericolose, del panorama mondiale. La più grande tragedia del calcio albiceleste prende vita il 23 giugno 1968, ovviamente al Monumental, in un periodo in cui la crisi economica e la repressione operata dal generale Juan Carlos Ongania, scatenano una violenza all’ordine del giorno, che investe anche il calcio. La partita non è definibile tale, perché di quello che è il calcio ha ben poco, noiosa e scorretta, così molti tifosi, anche a causa del freddo, decidono di abbandonare lo stadio poco prima della fine. Una delle uscite è la ‘’Puerta 12’’, un cancello buio e angusto, in cui in breve finiscono per incanalarsi centinaia di tifosi: non c’è via di scampo, molti finiscono soffocati, altri perdono l’equilibrio rimanendo schiacciati, in totale le vittime sono 71. Una disgrazia, questo è come l’ha definita il Governo Argentino, che ha minacciato e corrotto i testimoni oculari e risarcito, con cifre ridicole, i familiari delle vittime. Le teorie sono molte: secondo alcuni la negligenza degli organizzatori, secondo altri, la violenza e la repressione politica delle forze dell’ordine, ma probabilmente, come per queste e molte altre tragedie, la verità resterà per sempre ignota.

Auguriamoci che queste vite spezzate, così come tutte quelle che non sono state citate in questo articolo, restino per sempre nell’immaginario collettivo, perché certe volte, sì, bisogna ricordarsi che questo è solo un gioco .