"Cadrò, cadrò sempre fino all'ultimo giorno della mia vita, ma sognando di volare"
Alfonso Gatto, poeta

SOGNANDO DI VOLARE
Quando l’organo attaccò il preludio in fa minore di Bach, gli trafisse il piccolo cuore. In piedi, davanti alla maestosa Radio Marelli del nonno, ascoltava le parole sommesse, tristi, di una radiocronaca che non avrebbe mai voluto sentire. Giungevano da una piccola chiesa di Castellania in provincia di Alessandria, da dove l’airone avrebbe spiccato il suo ultimo volo. Il 4 gennaio 1960 fu una giornata fredda, grigia, e anche quel lembo di cielo che si distendeva sopra la chiesina  era triste.
Nuccio, 11 anni, mentre ascoltava quelle parole, che non sempre capiva, stringeva tra le mani il tappo della bottiglietta di birra con inserito il tondino di carta con i colori della maglia e il nome del campione. Il suo tondino era bianco-celeste e il nome del ciclista era Fausto Coppi.
Quanti pomeriggi passati sul bordolo del marciapiede a tirare il dischetto e battere in volata i tondini che portavano altri nomi come Bartali, De Filippis, Bobet, Gaul. Nuccio ripensò a quel giorno in cui riuscì a vederlo di persona, tenuto per mano da papà, che a un certo punto lo prese tra le braccia e lo sollevò in alto, per fargli vedere meglio la volata finale sul Lungomare, ultimo chilometro – il più bello d’Italia come lo eternò D’Annunzio – arrivo del Giro della Provincia.
Adesso, il suo campione non c’era più e una lacrima finì dentro il suo piccolo tappo di birra e stinse il colore bianco-celeste che svaniva come il suo sogno di bambino.  
Si dice che noi italiani non amiamo il passato remoto, sogniamo il confortevole tepore del nostro passato prossimo. In realtà ognuno di noi ha la sua madeleine e ce la portiamo dietro come un codice delle emozioni. Vedere in Tv la partenza del Giro D’Italia ha attivato il mio personale codice emotivo e la mia madeleine.
Mentre scrivo mi viene in mente un pensiero di George Bernanosci sono tanti morti nella mia vita ma più di tutti è il bambino che io fui.

LE RUOTE DELLA STORIA
Avete mai fatto caso al fruscio che si lascia dietro un drappello di ciclisti quando percorre l’asfalto bagnato dopo una pioggia? Non somiglia a quello delle forbicine che tagliano un nastro di seta? Anche questa è un’evocazione dagli accenti proustiani, ma adesso accantoniamo i richiami letterari e proviamo a percorrere, naturalmente in bici, qualche tratta della Storia, quella con la S maiuscola, così evitiamo fraintendimenti. Lo sport, nel nostro paese, è un po’ il linguaggio universale di ogni discussione – stavo per dire esperanto,ma è meglio non eccedere . Sport e donne ha precisato qualche malizioso osservatore. Forse, ma lasciateci il beneficio del dubbio. Si è portati a pensare che quando si dice Sport – nelle italiche contrade – si intenda Calcio. Non è stato sempre così.
Nel 1948, per  certi aspetti, è il ciclismo che infiamma gli animi. Ovviamente è l’anno magico del grande Torino, ma il ciclismo è una fede che ha trovato due santi dal carisma indiscutibile: Fausto Coppi e Gino Bartali.
E’ un’Italia ferita, nel corpo e nell’anima, che arranca proprio come quando si pedala, e suda per raggiungere il traguardo del proprio riscatto umano e sociale.
Nel primo dopoguerra, la bicicletta è un mezzo di sopravvivenza. Serve per andare a lavorare, per spostarsi in città, per stare insieme nelle scampagnate. La ragazza che pedala con una mano sul manubrio e l’altra a trattenere la gonna che non si sollevi è un’immagine tenera e struggente.  
E’ l’Italia magistralmente rappresentata da Vittorio De Sica in quel capolavoro del cinema che è Ladri di biciclette, considerato l’ultimo raggio di luce del neorealismo. Sui nostri schermi, infatti, irrompevano già  i primi film hollywoodiani, che incantavano gli spettatori con le lusinghe del sogno americano. Il film di De Sica, sceneggiato da Cesare Zavattini da un libro di Luigi Bartolini., reca un messaggio di speranza ben rappresentato nel finale quando padre e figlio si allontanano tenendosi per mano.
Coppi e Bartali sono due eroi popolari. La gente si assiepa lungo le strade, si arrampica sui muretti diroccati, sui tralicci urla i loro nomi, esalta le loro gesta nelle vistose scritte, con la calce, sull’asfalto: W Coppi - W Bartali.

1909, NASCE IL GIRO D’ITALIA
Se il Tour de France appassionava i francesi perché gli italiani non avrebbero dovuto entusiasmarsi per il Giro d’Italia? Alla Gazzetta dello Sport era da qualche tempo che ragionavano sulla possibilità di organizzare un evento sportivo di una certa caratura, qualcosa che evocasse il territorio nazionale con le sue città, le sue campagne. Bisognava fare presto, perché al Corriere della Sera ci stavano pensando da un  pezzo. Occorreva bruciarli sul tempo.
E così fu. La rosea pose la sua egida sulla corsa ciclistica che da 114 anni, in primavera, quando nell’aria volano i petali dei meli, attraversa buona parte del paese e che richiama sulle strade folle festanti nonostante la Tv, Radio e siti vari. Al primo albeggiare del 13 maggio 1909, al Rondò di Loreto ( oggi Piazzale Loreto) a Milano si ritrovarono 130 persone. Il circuito prevedeva otto tappe, per un totale di 2.448 chilometri. La corsa si concluse sempre a Milano e a vincerla fu il ciclista italiano Luigi Ganna.
Durante il ‘ventennio’ tra il regime e il ciclismo non scattò subito il feeling. Il fascismo preferiva i motori rombanti più in linea con il futurismo ‘marinettiano’. Poi, come accadde con il calcio, i gerarchi pensanti, e più accorti, capirono che la bicicletta appassionava le masse e, come sappiamo bene, le masse hanno esercitato sempre un certo fascino sull’intellighenzia in camicia nera.
Nel 1936, anno in cui il consenso  al regime, toccò l’acme, il Giro se l’aggiudicò Gino Bartali. Vinse anche l’edizione successiva. Era il personaggio del momento.
Correva per la Legnano e si stava allenando scrupolosamente per il Giro del 1938. Ma, da Palazzo Venezia, arrivò un ordine secco: Bartali non partecipi al Giro e si prepari a disputare il Tour de France e, naturalmente, vincerlo. Cosa che puntualmente si verificò. Manco a dirlo l’affermazione fu utilizzata dal regime per ribadire la forza e l’ardimento della schiatta italica.
Due anni dopo a vincere fu un giovane ciclista piemontese. Un certo Fausto Coppi tagliò trionfante il traguardo a Milano. Era il 9  giugno 1940! Il giorno dopo Mussolini annunciò la guerra e la corsa si fermò per cinque lunghi anni.

UN NASO TRISTE COME UNA SALITA
Ponte a Ema è un centro abitato del Val d’Arno fiorentino diviso tra i comuni di Bagno a Rivoli e Firenze. Sorge a ridosso del Torrente Ema, cui deve il nome. Il fiumiciattolo ha una sua dignità storico - letteraria. Nel Paradiso di Dante si narra che, proprio sul Ponte, un giorno, si trovò a passare Buodelmonte de’ Buondelmonti che secondo Giovanni Villani, il maggiore dei cronisti fiorentini e Dino Compagni, mercante con la vocazione della politica e della cronica avrebbe causato, non convolando a nozze con una donna della famiglia Amidei, la divisione di Firenze nelle fazioni di Guelfi e Ghibellini: “Molti sarebber lieti che son tristi/ se Dio t'avesse conceduto a Ema/- si legge nel poema dantesco - la prima volta ch'a città venisti.”
A Ponte a Ema, il 18 luglio 1914, nasce Gino Bartali. Il padre, Torello, è uno sterratore e scalpellino di fede socialista che trasmise al figlio il valore del lavoro, della solidarietà e dell’onestà. La madre, Giulia Sizzi, domestica, lo educò ai valori della religione cattolica. Gli insegnamenti materni segneranno la formazione e il carattere di Gino Bartali la cui forma mentis sportiva è sostenuta da una convinzione morale più che da una convinzione atletica. Questo aspetto lo approfondiremo meglio nel prosieguo del racconto.
Il talento per il pedale si manifestò a 13 anni, quando, al mattino, frequentava le elementari e al pomeriggio lavorava come apprendista nell’officina di Oscar Casamonti, ex corridore e meccanico. Per spostarsi, sia per il tragitto casa-scuola che per le consegne ai clienti, utilizzava la bicicletta. La sua prima squadra, nel 1931, fu la Società Sportiva Aquila di Ponte a Ema.
Nel 1933 passò nella categoria dilettanti. L’anno dopo, nel corso della Coppa Vecchioni a Grosseto, cadde rovinosamente durante una volata e subì, oltre a un commozione cerebrale, anche la rottura del naso che gli rimase deformato alla base e con una cicatrice che, comunque, gli agevolò la respirazione.
Il ‘naso’ di Bartali “triste come una salita” canta Paolo Conte nella canzone a lui dedicata.

I DUE VOLTI DELL’ITALIA
Così Curzio Malaparte definì Gino Bartali e Fausto Coppi. Certo, l’Italia di un determinato periodo Le loro vicende – umane e sportive – coincidono con  il ventennio più significativo della nostra storia. Sono, però, sia dal punto di vista sportivo che umano, due persone completamene diverse.
Focalizziamo adesso la figura del ciclista toscano, di Coppi parleremo in seguito.
Per Vasco Pratolini, era il Savonarola della bicicletta. Azzeccatissimo paragone, Bartali infatti era religiosissimo, terziario francescano, portava all’occhiello della giacca il distintivo dell’Azione Cattolica, democristo, come si diceva allora( forse anche oggi).
In sella è decisamente un carro armato, un ruminatore di fatica. Imbronciato, a volte collerico, polemico, sanguigno. I tratti essenziali di un carattere che potremo riassumere in ruvidità toscana.
Comunque, un campione dotato di una fortissima personalità. Un personaggio a tutto tondo che ovviamente attirava le attenzioni di scrittori, giornalisti, ma anche pittori e scultori.
Guardalo mentre pedala – scriveva Orio Verganiti può sembrare un’immagine barocca; sembra che pedali con le palpebre. Nella fatica e nella lotta la plastica del suo viso perde ogni frivolezza da giovanotto di sobborgo domenicale fiorentino.”
Curzio Malaparte,
che non ha mai fatto mistero del suo amore sconfinato per la bicicletta, confidava agli amici: vorrei scrivere la vita di Bartali e metterci dentro vent’anni di Toscana e d’Italia.
Ottone Rosai, pittore fiorentino, di temperamento ribelle, anti-conformista, portato ad assumere posizioni critiche anche durante il ventennio fascista, si era messo in testa di dipingere il ritratto di Bartali. “Masaccio lo avrebbe fatto – diceva - e Michelangelo in qualche angolo del Giudizio Universale ce lo avrebbe ficcato”.

LA CALDA ESTATE DEL ‘48
Il 14 luglio 1948
è una giornata caldissima e afosissima. Per Roma segna il vero inizio dell’estate. Le due settimane precedenti erano state decisamente autunnali. A Montecitorio, siamo alla vigilia delle ferie parlamentari e in aula è in corso una discussione che si trascina stancamente. I deputati, accaldati e sudati, seguono stancamente.
Il 1948, ricordiamo, è un anno che conta e che è destinato a lasciare il segno. Il 18 aprile c’erano state le elezioni che avevano sancito la eclatante vittoria della Democrazia Cristiana sul Fronte Popolare ovvero PCI e PSI uniti. Il  48,5% dei voti allo schieramento guidato da Alcide De Gasperi.Il 31,5% a Palmiro Togliatti e Pietro Nenni.
Verso le 11,30 di quel 14 luglio, Togliatti accompagnato da Nilde Jotti, ufficialmente sua segretaria, ma, in realtà, tra i due si era instaurato un legame sentimentale, lascia la Camera, da una porta secondaria per andare a prendere un gelato al bar Giolitti.
Mentre i due si avviano, alle loro spalle sbuca un giovane bruno, vestito di scuro, estrae dalla tasca un rivoltella e spara tre colpi in rapida successione al leader del PCI, che si accascia a terra. La Jotti lancia un urlo, accorrono due carabinieri che arrestano l’attentatore. Si chiama Stefano Pallante, 24 anni, viene da Catania. In tasca ha 70 lire e una copia del Mein Kampf. Studente lontanissimo dalla laurea, cultura abborracciata, idee poche e confuse.
Togliatti viene immediatamente ricoverato e operato da due famosi luminari dell’epoca: Pietro Valdoni e Cesare Frugoni, che dopo 45 minuti di intervento dichiarano che è fuori pericolo. Il Paese, però, non lo è. La notizia dell’attentato provoca sconcerto nel paese e dal nord al sud operai e contadini scendono in piazza. Viene proclamato lo sciopero generale, fabbriche occupate, sedi dell’azione cattolica devastate, le camionette della Celere percorrono le strade delle città. Il clima è da insurrezione.

GINO, PUOI VINCERE IL TOUR?
Gino Bartali è al Tour de France. Si trova a Cannes, tappa di riposo della corsa transalpina. Mentre è in spiaggia con i compagni di squadra, arriva trafelato e ansimante un impiegato dell’albergo e riferisce a Monsieur Bartali che c’è una telefonata urgente per lui dall’Italia.
Grande sorpresa per il campione quando all’altro capo del filo sente la voce di Alcide De Gasperi.
'Gino, puoi vincere il Tour?'
'Presidente, sono indietro in classifica, ma la tappa di domani la posso vincere, poi si vedrà…'.

La mattina dopo sveglia alle 6 e la macchina della corsa si avvia verso le terribili montagne transalpine. Bisogna scalare Allos, Vars e Izoard, il Golgota del ciclismo, dove addirittura nevica.
Bartali s’impegna allo spasimo e riesce a staccare Bobet che, in quel momento, è maglia gialla.
Il giorno dopo, ad Aix –les Bains – sarà lui a indossarla e a vincere il Tour. La notizia, diffusa dalla Radio, in tarda serata agì da valvola da sfogo alle tensioni che si erano accumulate nel corso della giornata. Ora, è chiaro che non fu solo la vittoria di Ginettaccio al Tour a fermare la rivoluzione. Diciamo meglio che ci fu un concorso di circostanze favorevoli a cominciare dal buon esito dell’intervento chirurgico e anche dal buon senso dello stesso leader comunista che, proprio mentre era in barella, riuscì a sussurrare a Pajetta e a Amendola: “Non fate sciocchezze”. Però furono in tanti a ringraziare Gino per la sua bella vittoria.
Fu ricevuto da Papa Pacelli, da Einaudi, presidente della Repubblica e, naturalmente, da De Gasperi.

(SEGUE)