Ecco, la musica è finita gli amici se ne vanno...
Il verdetto è implacabile: fuori. Abbiamo visto un'ottima Fiorentina nell'arco dei 180 minuti; combattuto a testa alta. Ma comunque fuori. 
Rispetto alla gara di andata il copione non è assolutamente cambiato: 68% possesso palla Viola contro il 32% di Madama. I tiri, anche nella gara di ritorno così come in quella disputata a Firenze, sono stati quasi a senso unico: 17 contro 8. Eppure nelle tre partite disputate, compreso il match di campionato, il confronto è impietoso in fatto di goal. Nel calcio questo conta di più.

Ieri sera Allegri ha sfoderato le armi migliori, quelle che sa fare meglio: difesa e contropiede. Ecco perché, per inciso, prende sempre imbarcate, anche da squadre palesemente inferiori, in Champions League. La squadra di Italiano si è trovata davanti un muro, specialmente nella ripresa. I difensori e centrocampisti hanno chiuso tutte le linee di passaggio marcando, negli ultimi venti metri, addirittura a uomo. Difficile saltare la diga umana e arrivare al tiro. Certo, e nel calcio così come nella vita i dettagli fanno la differenza, il palo di Ikonè all'Artemio Franchi a portiere battuto e la respinta casuale di Cabral sulla riga al tiro-gol di Torreira gridano ancora vendetta. A casa mia, e uso la mia solita disquisizione dialettale, si dice che "se la mi' nonna avesse le ruote sarebbe un carretto". È vero di ma e di se il calcio è pieno.
Alla fine, e sarebbe un errore, viene quasi da pensare che non siamo riusciti a raggiungere la finale per due clamorosi errori che di solito accadono nei campi di periferia. Lo sfortunato autogol di Lollo Venuti all'andata quando mancavano 8" alla fine del recupero e la non uscita di Dragowski, o la ricerca delle farfalle del numero 1, hanno permesso alla Vecchia Signora di giocarsi a Roma, l'11 maggio, la finale contro l'Inter.

Non posso dimenticare, ma non deve essere nel mondo più assoluto un alibi, le assenze di Bonaventura, Castrovilli, Odriozola, Milenkovic e l'infortunio, dopo mezz'ora di gioco, a Torreira.
Questa volta, ed è la prima, non ho capito nemmeno molto le scelte del mister. Non faccio assolutamente mai parte dei sessanta milioni di Commissari Tecnici che ci sono in Italia. Tantomeno dopo la partita. Però, anche per le defezioni, questa volta Italiano penso si sia incartato. Forse ha sentito troppo l'importanza della partita e ha fatto scelte, anche a gara in corso, che Allegri, da tecnico navigato, non avrebbe nemmeno pensato.
Perché Dragowski? In città lo sanno anche i muri che andrà via a giugno; è fuori da un progetto tecnico dopo che lo staff si è reso conto dei limiti, soprattutto nell'impostazione dal basso, ed è a tutti gli effetti un dodicesimo. È stato ripescato nella partita più importante dopo più di tre mesi dal madornale errore di Napoli, sempre in coppa. È il primo responsabile; è inutile girarci intorno. Penso che Vicario sia già sulla Strada di Grande Comunicazione Empoli-Firenze (poco meno di diciotto chilometri) per fare il titolare il prossimo anno.
Italiano si è inventato Ikonè mezzala invece di sostituire Jack e Castrovilli con Maleh o Amrabat. Errore madornale in quanto al centro eravamo sempre in inferiorità numerica. Con il francese largo a sinistra e Gonzalez a destra mettendo un centrocampista di sostanza, forse, si poteva pensare di portare Torreira nella trequarti per la verticalizzazione.

Devo sempre ricordare, anche a me stesso, che nove mesi fa facevamo i conti su dove poter raccimolare i 2 punti sufficienti, nelle ultime quattro giornate, per poterci salvare matematicamente. Gli errori, se ci sono stati, devono servire per crescere, compreso l'allenatore, che era la prima volta che arrivava a questi livelli. I "corvi neri" che stamani pontificheranno per mettere tutto e tutti in discussione dovranno essere bravi, come ogni tifoso, a resettare il risultato, trovare nella sconfitta momenti di crescita e pensare alle ultime sei partite. Domenica intanto ci aspetta un Arechi super infuocato in quanto, come sottolineato recentemente, la Salernitana, con ancora una partita da disputare, è tornata in gioco per la salvezza.
Ricordiamoci che, oltre al recupero con l'Udinese (la Lega, ridicola, ha spostato la finale di Coppa Italia Primavera dopo che aveva sposato Fiorentina Udinese per fare giocare la Finale di Coppa Italia Primavera che al mercato mio padre comprò...) a Firenze devono venire Roma e Juventus. Chissà...
Ultimo, ma non certamente per ultimo, Vlahovic. Non ne abbiamo avuto notizie in entrambe le partite.
Sui social il serbo ha mostrato la felicità commentando l'approdo in finale scrivendo: "È cucita sul petto, la portiamo nel cuore e con orgoglio torniamo a giocarcela". Ma "mi facci il piacere!". E' questa una delle più esilaranti battute pronunciate dal mitico Totò nell'incontro con l'onorevole Cosimo Trombetta sul wagon lit. Ecco perché simboli come Paolo Maldini o Alessandro Del Piero sono stati applauditi a Firenze e altri quaquaraquà sonoramente fischiati o, meglio ancora, ignorati.

Pensare come era diverso l'atteggiamento di giocatori di un calcio finito, sepolto, ma doverosamente sempre da ricordare.
Nella squadra Viola degli anni Sessanta, colloquialmente definita Fiorentina ye-ye per la presenza di molti giovani, giocava Brizi (auguri ragazzaccio per le tue prossime 80 candeline). Fu lanciato titolare assieme a vari coetanei come Gonfiantini, Rizzo e Merlo. Nella stagione 1968-1969 fu tra i protagonisti nella vittoria del secondo Scudetto dei Viola.
Fisico roccioso andava a "caccia" delle prede anche a metà campo. Epici gli scontri con il bianconero Capello. Eppure nei modi era squisitamente educato. Anche in campo. Non parliamone poi nelle interviste che venivano fatte, quando venivano fatte, subito dopo le partite; sperava che non lo chiamassero mai ai microfoni. Ricorda che nella penultima di campionato contro l'Inter nel 1971 "loro erano già campioni d’Italia, noi disperatamente in lotta per la salvezza. Gol di Mariani, 1-0, e ci sentiamo in A. Gol di Jair, 1-1, e ci sentiamo fra A e B. Gol di Mazzola, 1-2, e ci sentiamo quasi in B. A questo punto manca una decina di minuti, e a ogni respiro ci sentiamo sempre più in B. Finché: calcio d’angolo, tira Chiarugi, Bellugi rinvia corto, il pallone mi capita fra i piedi, a pochi metri dalla porta, sparo e segno. La domenica dopo andiamo a Torino, 1-1 con la Juve, salvi. Mi chiamavano Pino quando giocavo all’oratorio dei salesiani, a Macerata, in tutti i ruoli, anche centravanti. Poi andai alla Maceratese, e lì giocavo centrocampista. Poi fui acquistato dalla Fiorentina: De Martino, riserve, prima squadra, esordio a Ferrara contro la Spal come mediano, e feci anche gol. Poi, a forza di tornare indietro, trovai posto come stopper: era meno divertente, però più facile. Mi specchiavo con il centravanti: dove andava lui, andavo anch’io; anzi, cercavo di precederlo, anticiparlo, bloccarlo sul nascere. Che fatica con Vinicio: troppa fantasia. Meglio con Altafini, ma lo dico con il massimo rispetto e ammirazione: più classico. "Ciao" prima di cominciare, "scusa" se gli facevo fallo, "scusa" se gliene facevo un altro, "adesso basta" diceva lui se ne facevo un terzo, "ciao" alla fine. Fine. Pino, mi dicevano, sei troppo tecnico, troppo pulito nei contrasti. Forse per la mia poca cattiveria ho perso qualche autobus. Una sola panchina in Nazionale, ma per ogni evenienza avevo sempre il passaporto in regola.
Era anche un altro mondo: meno televisione, meno articoli, meno soldi. Per il mio debutto in A mi fecero un’intervista di 30 secondi, la mandarono in onda il sabato a mezzanotte, io ero a casa, con tutta la famiglia intorno, ma la trasmissione era disturbata, l’immagine andava e veniva. Il mio primo allenatore, alla Fiorentina, è stato Chiappella: come un padre di famiglia. Pugliese era una scossa elettrica: per scaramanzia su una cravatta a strisce aveva scritto – si può dire? – vaffanculo, e si toccava – si può scrivere? – "qualche" genitale. Liedholm sapeva trasmettere la sua tranquillità: con lui passai da stopper a libero, e la prima partita ero così tranquillo che la giocai con uno stiramento. Qualche complimento lo raccimolai da Pesaola. E Rocco: una volta, in ritiro alle Padovanelle, giocava a carte quando si avvicinò un uomo per dirgli che c’era un portierino, bravo, da prendere, che si chiamava Buso. E lo martellava, e lo infastidiva, finché Rocco esplose: "Ma di che Buso parli: del buso del culo?".

Siamo sempre certi che questo passato debba essere considerato indesiderabile? Ma non è che la storia, anche calcistica, dovrebbe permetterci di andare avanti, oltre? Anche nel football conta sempre la massima che il passato è passato, il futuro un mistero e il presente un dono? Questo modo di gestione da parte della Lega di tutto il movimento è veramente un dono?
Si ricorderanno almeno che la Coppa Italia cento anni fa incoronava un certo Vado? Oppure la finale sarà come sempre anche miseramente da contorno alla solita cantante che si esibisce in mezzo al campo per eseguire un Inno di Mameli, il più delle volte fischiato?
Nel 1922 i liguri riuscirono ad arrivare in finale e a battere la favorita Udinese con un gol di Levratto, che sfondò letteralmente la rete bianconera. 
"Ma è gol?" chiese il terzino Cantarutti. "È passa’ e g’ha fatto il buso" replicò in dialetto il portiere dell’Udinese Lodolo sdraiato a terra guardando la rete recisa dal forte tiro ad effetto di Felice Levratto. Il Vado entrava nella storia. Ogni anno per la finale di Coppa Italia quel nome risuona sconosciuto, Vado. Dove sarà? Che fine ha fatto quella squadra? Vado Ligure è diventata ormai la periferia industriale di Savona nonostante abbia caratterizzazioni storiche ed etniche tutte sue. C’è una centrale elettrica e ci sono tanti stabilimenti. Negli anni Venti era uno dei grandi centri operai con fonderie, impianti chimici e petrolchimici, laterizi, cantieri di demolizione navale e la possente Westinghouse che fabbricava locomotori elettrici e che ospitava 1.700 lavoratori.
Una squadra operaia che, nell’anno di Mussolini, sembra emblematicamente chiudere un’epoca di conflitti e di speranze controverse infrante nel grande buio del fascismo. Non ci sono più in vita i protagonisti di quella finale, non c’è più lo stadio del trionfo, come non c’è più la vera Coppa Italia in argento del peso di 8.250 grammi, immolata alla patria nel 1935, cioè donata alla segreteria federale del partito fascista dopo le sanzioni della Società delle Nazioni per l’aggressione all’Etiopia. C’è nella sede del Vado, che oggi gioca nel campionato ligure di Eccellenza, una copia di quella coppa consegnata nel 1992 dalla FGCI. Dei mitici eroi di quella battaglia contro l’Udinese, invece, non c’è più nessuno. L'ultimo testimone di quel match disputato al vecchio campo di Leo si chiamava Ignazio Bovero, classe 1906, e quel giorno si era sistemato dietro la porta dell’Udinese. Portiere della compagine ligure era Babboni I, uno dei tre Babboni che parteciparono al torneo nelle file rossoblù (Achille, Bacicin e Lino, quest’ultimo poi se ne andò in California).
Achille era un portiere strano poiché non rinviava la palla con i piedi bensì con il pugno chiuso, come si fa abitualmente nel pallone elastico. "Nelle giornate di tramontana -  ricordava - aspettavamo che facesse gol rinviando di pugno". Babboni finì la carriera nel Savona e da ultimo sposò la proprietaria di un bar che portava il nome del più famoso calciatore del Vado, Felice Virgilio Levratto (1904-68), salito alla ribalta proprio in quel torneo di Coppa Italia, andato in Nazionale (dove giocò 28 partite realizzando 2 reti) e passato al Verona, al Genoa e all’Internazionale.

Al 127° minuto l’allora giovane Levratto fece partire una bordata che sfondò la rete avversaria. "Levratto - scrisse un cronista dell’epoca - avanza verso il centro e triangolando con Babboni II anticipa l’entrata del centro mediano avversario, affronta il terzino destro, lo finta sulla sinistra, passa di slancio, avanza e da venti metri spara rapidissimo colpendo d’esterno sinistro, la palla carica d’effetto saetta lungo lo specchio della porta, si infila alta nell’angolo sinistro, squarcia vistosamente la rete e spegne la sua incredibile potenza contro la Torre di Scolta che orna il Leo a tramontana".

Vado Ligure il 16 luglio 1922.
Vado – Udinese 1-0
Vado: Babboni A., Babboni L., Raimondi, Masio, Romano, Cabiati, Roletti, Babboni G., Marchese, Esposto, Levratto.
Udinese: Lodolo, Bertoldi, Schiffo, Dal Dan, Barbieri, Gerace, Tosolini, Melchior, Moretti, Semintendi, Ligugnana.
Rete: Levratto.
Arbitro: Pasquinelli.
Prima di parlare di orgoglio e cuore, dopo poco più di tre mesi, dovrebbe pensare ai Furino, ai Morini, ai Gentile (tra l'altro ex viola) che incarnavano, loro sì davvero, la juventinità. Per la storia, lasciamo perdere. Bisognerebbe davvero conoscerla, e detto da me, malato di Fiorentina, è tutto dire: da Boniperti in poi potrei snocciolare davvero chi ha reso grande la "seconda" squadra di Torino.
La storia purtroppo insegna ma non ha scolari.
Il ricordo deve essere buttato? Sintomatica, e fatta mia, la frase di Carlo Verdone nel film "La Grande Bellezza: "Ho trascorso tutte le estati della mia vita a fare propositi per settembre, ora non più. Adesso trascorro l'estate a ricordare i propositi che facevo e che sono svaniti, un po' per pigrizia, un po' per dimenticanza. Che cosa avete contro la nostalgia, eh? È l'unico svago che ci resta per chi è diffidente verso il futuro. L'unico. Senza pioggia, agosto sta finendo, settembre non comincia e io sono così ordinario. Ma non c'è da preoccuparsi, va bene. Va bene così".
In fondo, a volte, non conosceremo mai il valore di un momento finché non diventerà un ricordo; dovremmo averne cura perché non potrà essere vissuto nuovamente.
Mai.