Roberto Mancini, chiedi scusa. C'è un limite a tutto e noi tifosi, noi italiani, meritiamo rispetto.
Perciò, non tergiversare più, non controbattere più, non dire più niente. Solo un parola, semplice, magica: “Scusa”. Non è difficile e non costa nulla. Scusarsi è gratis, ma rende molto, restituisce quel minimo sindacale di credibilità ed empatia quando si sbaglia. E tu hai sbagliato, clamorosamente. Non è un giudizio, è un’amara constatazione. 

Te ne sei andato così, senza preavviso, senza spiegazioni, all’improvviso. Te ne sei andato quatto quatto, in punta di piedi, in una calda giornata ferragostana, quasi ad approfittare delle distrazioni vacanziere degli italiani, ché non s’accorgessero della tua fuga. Sì, perché te ne sei andato via così, come un ladro che ha appena derubato in casa propria. Come un convitato che inaspettatamente sputa sul piatto appena consumato, si alza e se ne va. Come un comandante che, in un giorno come tanti, di mare calmo e ciel sereno, abbandona la nave, l’equipaggio, i passeggeri. Come un padre di famiglia che finge di uscire per comprare le sigarette e non torna più, va ad accasarsi dall’amante procace e godereccia.

Te ne sei andato e, quel che è peggio... hai mentito!
Ti sei arrampicato sugli specchi insaponati delle frasi fatte, delle scappatoie e dei miserabili rimpalli: le incomprensioni con Gravina, la fiducia che non sentivi più, il clima che era cambiato, le modifiche allo staff ... tutte balle! Propinate all’opinione pubblica, "tonta e scemotta".
E non ti sei neppure preoccupato delle apparenze, se pochi giorni dopo hai firmato un altro contratto, smentendoti clamorosamente. Non te ne è importato nulla, ci hai preso per i fondelli, indifferente al fatto che da lì a qualche giorno ti avremmo “sgamato”. 
Come se a noi non fosse già tutto chiaro; come se ormai non ci abbiamo fatto il callo, alle vostre avide mani sempre aperte e protese a chi vi offre di più.

“Me ne vado per i soldi, chiedo scusa”: avresti dovuto pronunciare questa semplicissima frase e avresti dovuto pronunciarla così, nuda e cruda, però vera. Ci saremmo arrabbiati, sì, ma non indignati. Ti avremmo criticato, sì, ma in fondo, forse, avremmo in qualche modo compreso e col tempo, forse, ti avremmo perdonato. Avresti sbagliato ugualmente, certo, ma almeno saresti stato onesto. Perché l’onestà intellettuale non è degli infallibili, bensì di chi ha consapevolezza delle proprie azioni e se ne assume la responsabilità. Avresti detto la verità. Chi ne segue il cammino (diceva Gandhi) non inciampa mai.  

Tu invece sei inciampato, sei caduto, sei sprofondato in un pozzo lastricato d’oro, ma buio e senza fondo. Laggiù c’è una coscienza, a cui tutti noi, campioni o bidoni, di vita o di sport, dobbiamo render conto. 
Ti renderai conto di quanto sia stata improvvida e scomposta la tua scelta. Di quanta superficialità ci sia nel lasciare cosi la panchina della Nazionale. Di quanto amaro sia il gusto della bugia. Di come tutto abbia un prezzo, anche il denaro che ti daranno gli arabi.

Questi mercanti in fiera, che s’illudono di poter assurgere al talento sol perché lo ingaggiano. Questi costruttori di cattedrali nel deserto, che mischiano sabbia e cemento, cammelli e Ferrari, datteri e Gesù Cristo, fuoriclasse e pesci fuor d’acqua.
Questi ricconi in thawb bianco, che nascondono sotto il tappeto dell’opulenza, adesso applicata pure al calcio, la polvere dei diritti umani negati, delle pene capitali, delle donne soggiogate e omosessuali giustiziati.
Anche questo prezzo dovrai pagare, Mancini: il prezzo dell’incoerenza.
Tu, che il talento puro ce l'avevi in corpo e che, da allenatore, lo hai sempre ricercato e valorizzato, sappi che lì è tutta un'illusione. Tu sarai pesce fuor d'acqua, a impartir schemi e dettami a ragazzi che parlano un'altra lingua, in tutti i sensi. Tu, che qualche anno fa t’infuriasti in diretta tv per quell’epiteto sarriano, sappi che da quelle parti i “froci” non li insultano, li perseguitano. 

Quindi, prima di tutto, chiedi scusa a te stesso. Fallo domani, al risveglio, chiedi scusa a quel giudice impietoso che tutte le mattine ognuno di noi affronta, quando si guarda allo specchio. Li usano, gli specchi, da quelle parti? O vivono del solo riflesso dei soldi?
chiedi scusa a tutti, anziché rilanciare dai social, anziché continuare a metter pezze su falle irreparabili, anziché - si dice dalle mie parti - portarsi avanti per non cadere. 

Chiedi scusa a tutti noi. Anche se ormai è tardi, anche se il dado è tratto e il limite della decenza lo hai oltrepassato; anche se delle tue scuse non sappiamo proprio cosa farcene. 

Ma cosa siete? Degli automi? Pupazzi che prendono vita solo se premuti sul punto giusto? Jukebox che suonano al gusto di chi inserisce la moneta? Divinità dell’Olimpo nelle cui vene scorre solo insensibile aureo liquame? Che cosa siete diventati? Cosa è diventato il calcio? In cosa lo avete trasformato, se non in un mesto show-business senza trasporto? 

Non fate altro che raccontarci che siete professionisti e che proposte del genere non si possono rifiutare.  Si rifiutano, Mancini, si rifiutano.  Si rifiutano perché non siete solo professionisti, siete atomi d’un ecosistema romantico, fatto anche di passione, idealismo e sogni. Si rifiutano - ha scritto il direttore della Gazzetta dello sport - <<quando scegli la maglia azzurra, quando scegli di rappresentare un Paese, quando i bambini fanno la fila per mettersi una maglia col tuo nome>>. Si rifiutano perché non c’è somma che valga la fiducia di milioni di italiani. E se proprio la vuoi mettere sul piano del professionismo (vostra comfort zone), ti dico che si rifiutano quando sei un professionista serio che onora i contratti. Perché neppure questo sapete fare, non siete neppure capaci di serietà quando nuotate nel vostro stesso stagno, quello in cui sguazzate comodamente, quello del professionismo, appunto. E onorate i contratti solo se e fino a quando vi conviene, altrimenti ne fate carta straccia.

Il fatto è che non c’è più una briciola di onore in questo mondo del calcio, dove tutto è sdoganato, tutto è possibile e dove tutto passa … Tanto poi ci sono quei cretini dei tifosi, che comprano le partite (allo stadio o alla tv), che scommettono, che “indossano” merchandising, che cliccano sui siti, che vanno in edicola … e tutto ricomincia, come in una giostra impazzita. Altro giro, altra corsa. 
Il fatto è, Mancini, che noi siamo così: eterni e ingenui bambini, follemente innamorati del nostro gioco, su cui i Mangiafuoco strapagati banchettano di continuo.   

È imperdonabile ciò che hai fatto; e come lo hai fatto! Ma tu chiedi scusa lo stesso. 
Chiedi scusa agli italiani, che tifano per la Nazionale semplicemente perché in Essa ritrovano identità e appartenenza. Evidentemente non lo hai capito, ma quella che allenavi non era una squadra di calcio, era una rappresentativa, rappresentava tutti noi; non era una Nazionale, era una Nazione intera, che si piazza davanti alla tv e si unisce in un solo sentimento, una sola passione, una sola cosa.

Chiedi scusa alla Federazione, che ha creduto in te quando ti ha ingaggiato, che ti ha esaltato quando hai vinto e ti ha protetto quando hai perso: si chiama coerenza, si chiama lealtà ed è un valore che si professa sempre, nella buona e nella cattiva sorte, davanti a un pezzo di pane duro o ad un forziere pieno di denaro. Sempre! Chiedi scusa ai ragazzi … anzi no, a loro no, probabilmente la pensano come te. Chiedi scusa alla tua città e alle tue Marche, che rappresenti in degli spot promozionali, oggi da te privati d’ogni significato. Perché tu quel territorio, quella regione, che in te e per te s’inorgogliva, l’hai delusa. 
E chiedi scusa all’Italia, la tua patria, svenduta per 30 mila miliardi di denari, in un giardino che dei Getsemani ha le stesse radici, ma da cui non crescono più ulivi bensì alberi della cuccagna.

La tua cuccagna è lì, in quella terra di nessuno, dove il calcio è solo l’ultima frontiera del guadagno, della speculazione, della diversificazione economica. E dove voi, povere api affamate di polline, andate a dormire, con le pance piene ma svuotati dentro.
Mi fate pena, Mancini. Tu, Gabri Veiga. Neymar, Milinković, Mahrez, Kessie e compagnia cantante… di “canzoni stonate”, musiche orientaleggianti e danze del ventre molle.  

Sì, siete diventati il ventre molle del sistema calcio!  Potete possedere tutto l’oro di questo mondo, ma mi fate pena. Sembrate una triste fiumana di ricchi spilorci col piattino in mano; zombie assatanati di soldi, che caracollano con la bava alla bocca, anelando l’arabo benefattore. Fate impallidire Molière, fate invidia a Madame Claude, fate i Geni del pallone “alla mercé dello sfregar d’una lampada, che sarà la vostra dorata prigione”.

In quella tua posa al fianco d’un qualche sceicco, con quella maglia verde come il tuo sorriso, c’è tutta l’essenza di questa triste storia: una maglia è solo un pezzo di stoffa, fin quando ciò che rappresenta non le dia vita, fin quando il colore che n’è storia non le dia il respiro, fin quando il sudore di chi la indossa non le dia un’anima.
In quella foto di rito c’è tutto: la forma, la sostanza, un ct, la squadra, i sorrisi di circostanza, le strette di mano, le intenzioni di un buon lavoro, l’impegno di un professionista, la promessa degli obiettivi, l’entusiasmo del primo giorno… tutto. 
Ma non c’è vita, non c’è respiro, non c’è anima. Non c’è niente. Ecco, state trasformando l’universo calcio in un nulla cosmico, fatto di stelle remote, freddi pianeti e galassie troppo lontane. Eppure, "se guardi in alto c’è ancora la luna”, piena e fiera in questi giorni di fine estate: è qui, vicina, possiamo quasi toccarla. Generosa, illumina le nostre sere e sembra dirci che il sole è lì, dietro di lei, che adda passà 'a nuttata. Ce lo dice come ce lo direbbe quel toscanaccio di Luciano Spalletti, nel dialetto un po’ svirgolato della “sua” Napoli.  Buona vita, Mancini, non ci mancherai. 

Adesso sarai il Roberto d’Arabia, non più il Mancio, che in campo ci faceva strabuzzare gli occhi e in panca ci ha fatto salire sul tetto d’Europa. Quel Mancio non c’è più, te lo sei portato via in una giornata di quasi ferragosto, quando le città erano deserte e tu te ne sei andato, non senza aver prima razziato quel po’ di amore che ancora nutrivamo per quelli come te.   

No, non ci mancherai affatto! Ma ti auguriamo lo stesso buona fortuna, perché siamo diversi da te: noi, un italiano, non lo abbandoniamo mai, noi per gli italiani all’estero faremo sempre il tifo. Sempre!   

E sempre faremo il tifo per l’Italia. L’Italia di Pozzo che assunse gratis il primo incarico (era il primo dopo-guerra e la fame imperversava), di Pertini che scattò in piedi al grido “non ci prendono più”, di Schillaci dagli occhi spiritati da cui propalava la pura luce d’un intero popolo. Siamo l’Italia che, mani al cuore, canta l’inno fino all’ultima nota, fino al culmine di un “Sì!” esclamato con quanto fiato abbiamo in gola. Siamo l’Italia delle bandiere sui balconi e le giornate a festa quando gioca la Nazionale. Siamo l’Italia che gioisce, che s’incazza, che esalta e che critica, che se ne intende più dell’allenatore, quella dei poeti, santi, artisti, navigatori e commissari tecnici. L’italia dei pronostici al bar e dei “te l’avevo detto", l’indomani, al bar di prima. Siamo l’Italia che ama l’Italia. Ama quel tricolore che sul petto di magliette sudaticce prende forma e pende a battere, ama quell’azzurro come il cielo sopra Berlino e sopra Londra. Siamo l’Italia che idealmente si abbracciava a te e a Luca Vialli, perché ci sentivamo tutti la stessa cosa, una sola cosa, e perché quell’abbraccio e quelle lacrime ci emozionarono fin quasi a toglierci l’anima. Siamo l’Italia, Mancini. L’Italia! Tu eri l’Italia, Mancini. L’Italia!