L'altro giorno, trovandomi in un campetto di calcio, ho avuto modo di fare due tocchi con un pallone che non avevo mai provato: il design era lo stesso di altri. Cambiava, solo l'indirizzo che prendeva, una volta percosso dal mio piede poco educato e di lontane memorie. Filava obbediente secondo le traiettorie intenzionali: docile rimbalzava in palleggio, né troppo rigido né troppo soffice. Il controllo era molto più agevole di quello che ricordavo fin dagli anni Settanta, e sai che nuovi footballs stavano entrando sulla scena.
E mi sono detto: forse avrei avuto un altro rapporto, almeno con la palla, se fosse stata così.
Ora mi chiedo: se l'inflazione risulta il rapporto tra il valore attribuito al prodotto e quello dovuto alla sua genesi: fatica, talento, etc,: come si può stimare un valore di duecento miliardi di lire di un forte giocatore odierno paragonato, mettiamo, alla valutazione di un Di Stefano che giocava con ben altri oggetti? Forse, allora, i campioni da duecento miliardi erano percentualmente molti meno. Non è che, quindi, oggi i prezzi stanno contribuendo enormemente all'inflazione se di giocatori da duecento miliardi te ne pesco almeno dieci nell'intero quadro calcistico?
E non è, forse, che questa alluvione di soldi che si sta riversando sul calcio sia parte di un grande bluff destinato, come tutte le mode, a spegnersi?
La spettacolarizzazione del fenomeno by Tv ormai si trova in una fase avanzata, tanto che la vicenda delle spartizioni dei proventi contribuisce, pare, alla grande al potere contrattuale di una squadra. E molti dei problemi sugli spalti sono proprio dovuti alle tifoserie di marchio e "ortodosse" che raramente ospitano intenditori di calcio e quindi autentici fruitori in grado di far sviluppare una passione genuina com'era quella delle origini e dei tempi del pallone raffigurato nell' immagine. Si cerca cioè, agli alti livelli, di applicare al calcio quello che di negativo contraddistingue il processo chiamato "progresso", che più o meno si riassume nel concetto che tutto è buono purché sia nuovo.
Ecco, credo che per giudicare il mondo del calcio come quello dell'informazione vada fatta una tara grossa, troppo a lungo negletta e consistente in fattori difficilmente trascurabili. Per questo seguo più volentieri le serie minori, ripenso a quando il calcio era un rituale domenicale e un fattore raramente di dissidio, il più delle volte di aggregazione familiare.
Qualcosa di quest'atmosfera mi sta riportando in questi giorni la Nazionale di calcio femminile, che da buon "maschilista" ero restio a seguire, ma su cui la prova con l'Australia mi ha fatto ricredere. Mi ha ricordato i tempi eroici di Domenghini.
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