Premessa: per una serie di ottime ragioni, lo scopo di questa rivisitazione non è criticare Maurizio Sarri. Innanzitutto, perchè è oggettivo che a Napoli abbia mostrato notevolissime capacità, indispensabili a rivitalizzare un ambiente depresso dopo il secondo anno di Benitez.
Inoltre, a novembre inoltrato di una nuova stagione calcistica, non ha piu' senso farlo: l'attuale allenatore del Chelsea rappresenta oramai il passato, sebbene pieno di bei ricordi. Nella vita come nel calcio, è giusto guardare avanti e tutti i tifosi napoletani sono concentrati sul Napoli 2018-19 e sulle sfide che lo attendono in questa lunga stagione.
Non si può poi non avere simpatia per un uomo perbene, molto innamorato del suo lavoro. Un tecnico capace -esclusivamente grazie alle sue grandissime abilità- prima di scalare sei livelli del campionato italiano, passando in vent'anni dalla Promozione al secondo posto della serie A e, successivamente, di mettersi alla guida tecnica di uno dei club più ricchi e prestigiosi del mondo, il Chelsea.
È giusto guardare con ammirazione un burbero e ironico toscano, molto coraggioso nel lasciare uno stipendio sicuro (l'impiego in banca), sfidare consuetudini sociali e lo scetticismo di parte di amici e familiari, per inseguire il proprio sogno, fare l'allenatore di calcio.
Eppoi, tra la città partenopea e il tecnico nato a Napoli e cresciuto a Figline Valdarno (provincia di Firenze) è nato un rapporto d'affetto profondo che è doveroso rispettare.
Tuttavia le recenti dichiarazioni di Sarri alla Gazzetta «Presi una squadra che aveva chiuso il campionato con 64 punti e ho lasciato una squadra che ha raggiunto quota 91. PiĆ¹ di questo non si poteva fare" aprono lo spazio -in una settimana non oberata dall'intensa attività dei club- per riflessioni sulla correttezza storica e tecnica di questa valutazione, utili non a tanto per muovere una sterile critica a un grande tecnico, ma piuttosto a far compiere un mea culpa costruttivo all'ambiente calcistico napoletano.
 
Il Napoli di Mazzarri e Benitez
Quale Napoli ha preso in mano Sarri? Da quali stagioni proveniva? Molti dimenticano (o non riportano) che la squadra azzurra allenata da Mazzarri, con un organico oggettivamente inferiore a quello di queste tre precedenti stagioni, aveva ottenuto un secondo posto e lottato per lo scudetto sino alle ultime giornate. Nei suoi anni partenopei, inoltre, la società riusciva, dopo venticinque anni di digiuno, a conquistare la coppa Italia. Quella del tecnico di San Vincenzo (Livorno) era una squadra operaia, capace di entusiasmare piu volte il pubblico per il carattere mostrato in campo, grazie al quale varie volte era stata autrice di rimonte nelle parti finali della gara. Anche il Napoli successivo alla gestione di Mazzarri, quello di Benitez, è stato capace di lasciare una traccia indelebile nella piccola storia del calcio italiano, vincendo coppa Italia e Supercoppa. Nella seconda (negativa) stagione dell'ex tecnico del Liverpool,  gli azzurri sono pur sempre arrivati in due semifinali, sia nuovamente nella coppa nazionale che in Europa League (molti ricorderanno il clamoroso errore arbitrale che segnò negativamente per il Napoli la doppia sfida col Dnipro). Una squadra trovatasi tra l'altro, a dieci minuti dal termine dello sfortunato campionato 2014-15, ad un calcio di rigore dal terzo posto che avrebbe voluto dire accesso ai preliminari di Champions League.
 
La squadra presa in eredità
Nella seconda stagione del tecnico spagnolo, con la scelta di non confermare Reina, la squadra si indebolì. Una rosa composta da una decina abbondante di reduci dal mondiale brasiliano non riuscì ad arrivare pronta ad agosto al preliminare di Champions con l'Athletic Bilbao: il contraccolpo psicologico fu pesante, indirizzando una prima fase di stagione vissuta nella sfiducia e nella contestazione generale. Una volta andato via Reina, si giocò tutto l'anno, in un ruolo peraltro delicatissimo, senza un portiere adeguato: nè prima Rafael (abbiamo visto la carriera poi avuta dall'attuale secondo portiere della Samp), nè poi Andujar (proveniente dall'essere l'estremo difensore di riserva nel Catania retrocesso in Serie B) potevano definirsi tali, a certi livelli. Il centrocampo era mediocre: composto da David Lopez, Inler (l'anno successivo sarebbe stato panchinaro, con appena cinque presenze, nel Leicester), Gargano (la stagione seguente andato a giocare in un calcio non competitivo come quello messicano) e un giocatore ancora acerbo e forse inadeguato al modo di giocare di Benitez, come Jorginho (il quale, anche allenato da Sarri, è stato ignorato da chi, come Conte in Nazionale, praticava un calcio diverso da quello del tecnico toscano). La coppia di centrocampisti del 4-2-3-1 di Benitez, da qualunque componente fosse composta, non era in grado di assicurare, ai livelli richiesti per competere in Italia e in Europa, nè filtro, nè estro. Come terzino destro, giocava titolare un già 33enne Maggio - tra l'altro da sempre inadatto, soprattutto nella fase difensiva, alla difesa a 4- e Higuain, pur segnando 29 gol stagionali, sbagliava quattro rigori a dir poco decisivi per garantire punti pesanti e una diversa evoluzione del campionato. Il pubblico napoletano e i media nazionali, arrivato un tecnico capace di vincere il campionato col Valencia e la Champions con Liverpool, dopo il secondo posto ottenuto da Mazzarri e nonostante la partenza di un giocatore fenomenale come Cavani, si convinsero che un allenatore famoso potesse bastare da solo per vincere il campionato. Mancavano ancora dei tasselli per poterci provare: non arrivarono, ma molti, invece di valutare l'effettivo valore della rosa, addossarono tutte le colpe a Benitez (che pure ne aveva).
 
L'arrivo di Sarri
Inquadrare con una giusta prospettiva cosa è accaduto prima dell'estate del 2015 aiuta a capire meglio cosa avviene quando sulla panchina del Napoli arriva Sarri, reduce dalla salvezza in Serie A e dalla precedente promozione con l'Empoli. Con lui giungono sotto l'ombra del Vesuvio, tra gli altri, Reina, Hysay e Allan. Il paragone sul loro valore, decisamente diverso rispetto a quelli di Rafael, Maggio e David Lopez, oltre a una valutazione oggettiva, viene lasciato ai freddi numeri. Pur rimanendo in rosa, questi ultimi giocarono pochissimo a Napoli nei successivi tre anni (il centrocampista spagnolo andrà via all'inizio della seconda stagione di Sarri, dopo aver giocato soli 729 minuti in campionato nell'annata precedente). Reina, Hysay e Allan sono giocatori poco conosciuti (a eccezione del portiere spagnolo) o comunque non campioni che rubano l'occhio, ma incidono tantissimo nell'efficacia globale della squadra, specie se paragonati a chi sono andati a sostituire nella formazione titolare. Il fattore ambientale gioca anch'esso un ruolo importante: Sarri viene accolto da un iniziale scetticismo generale che poi, dopo i primi risultati positivi, si tramuta in entusiasmo contagioso in città, capace di fare da volano a una squadra entusiasta di aver ritrovato il proprio pubblico. Dopo un inizio di stagione negativo (due punti nelle prime tre giornate), Sarri è molto bravo a raddrizzare la rotta, cambiare modulo e passare dal 4-3-1 2 al 4-3-3. Sorprendentemente, ottiene dodici vittorie nelle successive sedici partite e chiude il girone d'andata al primo posto. Lo stesso Higuain, nella sua seconda stagione partenopea apparso nervoso e non convinto di rimanere in una società non sufficientemente competitiva, trova nuovamente voglia in una squadra che si mette completamente al suo servizio. Complice una partenza disastrosa della Juventus in campionato, il Napoli è capace di lottare per lo scudetto per due terzi del campionato: questa circostanza aiuta a stimolare un carattere particolare come quello del Pipita e l'argentino trova la migliore stagione della sua carriera, realizzando 36 gol in campionato, nuovo record della Serie A.
 
L'inizio della mitologia sarriana
L'allenatore toscano diventa improvvisamente una sorta di nuovo Re Mida: nessuno parla della spinta emotiva data alla squadra da un pubblico entusiasta per gli inaspettati successi, nè dei tre giocatori forti (anche molto, se paragonati a chi erano andati a sostituire) inseriti nei posti giusti. Nè tantomeno si accenna alla naturale maturazione di calciatori giovani o dell'inserimento fisiologico di stranieri provenienti da campionati non competitivi che nel loro primo anno italiano non parlavano nemmeno l'italiano. Non lo fanno i media generalisti, troppo distratti per lucide osservazioni tecniche analitiche sul Napoli. Non lo può fare il tifoso medio, contento per la sua squadra nuovamente in lotta per lo scudetto e attratto dalla figura di Sarri :educata, gentile, originale e "modesta" nel look in tuta, e soprattutto lontana culturalmente, sino poi a divenire in contrapposizione, con De Laurentis, mai troppo amato dalla pancia del tifo partenopeo. La soluzione più facile per dare una spiegazione a un Napoli tornato molto competitivo in campionato è attribuire i meriti esclusivamente alla nuova guida tecnica. Se il Napoli gioca bene, se fa record di punti e di gol segnati - ma li aveva realizzati quasi costantemente, di anno in anno, anche prima di Sarri e, soprattutto, dipendono molto dalla bassa qualità media di un campionato italiano sempre più mediocre- il merito è solo o quasi del suo allenatore, che ha trasformato giocatori medi in calciatori capaci di giocare benissimo.
 
I grandi meriti della conduzione dell'allenatore toscano
Chiariamo nuovamente: nessuno intende sminuire l'ottimo lavoro compiuto da Sarri, capace di dare un'identità riconoscibile alla squadra e di valorizzare al massimo Higuain (le parole dell'allenatore su di lui per motivarlo a dare il meglio hanno fatto anche più dell'improvvisa lotta per lo scudetto in cui il Napoli si è trovato catapultato). La sua capacità di far crescere, anche più della loro naturale maturazione psicofisica, giocatori come Koulibaly, Ghoulam e Insigne è innegabile. Così come il lavoro del tecnico toscano è stato a dir poco decisivo per far diventare Jorginho regista di primissimo livello internazionale, quantomeno per chi pratica un'idea di calcio simile a quella dell'allenatore toscano. Non va dimenticata nemmeno l'invenzione di Mertens schierato come prima punta: Sarri è stato molto bravo a credere nell'ex Psv in quella posizione, una scommessa vinta e ripagata dal belga con tantissime reti (23 nel solo anno solare 2017, meglio di chiunque altro in Serie A nello stesso lasso temporale). Quel che intendiamo sostenere è che l'essere andati oltre le lodi meritate per il gran lavoro svolto, aver assurto a quasi infallibile ogni mossa dell'allenatore toscano, aver reso un'abiura ogni critica costruttiva mossagli- chi lo faceva veniva etichettato come incompetente o come tifoso di altra squadra- ha fatto male in primis a Sarri. L'allenatore arrivato da Empoli e capace all'inizio della sua esperienza napoletana di cambiare modulo quando ha incontrato difficoltà, il tecnico disabituato al turn-over (in vent'anni ha allenato squadre che giocavano quasi sempre una volta a settimana) e alla sua necessità nelle grandi squadre, ma che nella prima parte della sua esperienza napoletana -seppur parzialmente- lo adottava, è andato via via trasformandosi in un integralista del suo stesso credo tattico.
 
Le esagerazioni in positivo sul suo lavoro
Intendiamo sostenere che Sarri abbia fatto un buonissimo lavoro in continuità con quello di altri due grandi tecnici, Mazzarri e Benitez, in carriera passati per altre panchine molto prestigiose e vincenti (soprattutto nel caso del tecnico spagnolo). L'allenatore toscano non ha inventato il bel calcio e di certo non lo ha fatto perchè nel suo primo anno ha totalizzato diciannove punti in più della seconda stagione del tecnico spagnolo e guardare con maggiore distacco il suo lavoro, senza levargli i grandi meriti, avrebbe aiutato tutti. Il primo Napoli di Sarri, ad esempio, per quanto sia inutile paragonare abilità di tecnici in campionati e squadre diverse, fece solo quattro punti in più di quello del primo campionato del tecnico spagnolo, che però in quella stagione vinse la Coppa Italia e fu prima impegnato in Champions (dove nel girone fece 12 punti sconfiggendo Borussia Dortmund e Arsenal) e poi, fino a marzo, in Europa League. Soprattutto, il riferimento con il rendimento della squadra nell'anno in cui arrivò l'allenatore toscano va fatto più correttamente con la distanza (sette punti, che potevano essere quattro se Higuain avesse segnato il famoso rigore con la Lazio) dal secondo posto ottenuto dalla Roma in quello strano campionato 2014-15. L'ultimo Napoli in cui ha giocato Higuain si aiutò, tra l'altro, nel suo rendimento in campionato, uscendo a febbraio nelle coppe ("Tanto interessano alla gente molto meno del campionato" fu la dichiarazione di Sarri, dopo l'eliminazione in Europa League ad opera del Villareal nella sua prima stagione partenopea). Se i paragoni tra stagioni differenti sono sterili e impossibili, del resto, è inutile approfondire ulteriormente, altrimenti, se Sarri è un mago, per la proprietà transitiva, lo è ancor di più Marco Giampaolo. L'allenatore di Giulianova infatti, subentratogli ad Empoli, prese una squadra letteralmente privata dei giocatori (Rugani, Valdifiori, Hysay, Vecino, Verdi, Sepe) che l'anno precedente erano stati artefici della salvezza e del 15° posto finale, e li sostitui' con un manipolo di giovani esordienti. Tutti davano quell'Empoli per sicuro retrocesso e, invece, terminò il campionato al decimo posto. Sarebbe insensato dire che Giampaolo sia per questo motivo più bravo di Sarri: ogni stagione fa storia a sè, innanzitutto cambiano gli avversari, senza parlare delle altre infinite variabili che indirizzano in un verso o nell'altro un'annata. Anzi, è corretto dire che il secondo ha comunque raccolto il lavoro di chi l'ha preceduto. Alla stessa maniera, riteniamo però che sia altrettanto azzardato sostenere che Sarri, confrontando il rendimento del Napoli della sua prima stagione, con quello dell'anno prima che arrivasse a sedere sulla panchina partenopea, abbia fatto miracoli. L'attuale tecnico del Chelsea prese una squadra oggettivamente rafforzatasi rispetto a quella che aveva terminato la stagione precedente a sette punti dal secondo posto, portandola né più e né meno in quella posizione. Per riuscirci, appunto, vennero contestualmente trascurati obiettivi raggiungibili come le coppe (Italia e Europa League).
 
Il valore reale della rosa del Napoli
L'equivoco che però maggiormente ha contribuito a passare dal giusto apprezzamento del lavoro di Sarri alla esaltazione dello stesso era dato da una valutazione errata sul valore della rosa del Napoli. Per molti -partendo dalla stessa Gazzetta dello Sport, il più importante quotidiano sportivo italiano, ma anche tanti altri organi di stampa nazionali erano concordi col giudizio della rosea- ancora quest'estate i partenopei erano da quinto posto, nonostante l'arrivo di uno dei tecnici più vincenti della storia del calcio, i diversi acquisti operati in sede di mercato e le cessioni dei soli Reina e Jorginho. Il motivo era sempre il solito, spiegato tra le righe: in questa nuova stagione sarebbero venuti a mancare gli schemi e gli automatismi del tecnico toscano, segreto indispensabile della squadra azzurra per lottare (inutilmente) per lo scudetto in due anni su tre della sua gestione. Un obiettivo, fallito, sul cui altare si è rinunciato a competere in Coppa Italia (appena una semifinale in tre anni, con due eliminazioni ai quarti nonostante si giocasse la gara secca in casa) e, soprattutto, in Europa. In campo continentale nel trienno di Sarri si registrano due eliminazioni molto precoci ai sedicesimi in Europa League. In Champions, in due partecipazioni, i bei ricordi sono rappresentati dalla vittoria sul campo di una squadra prestigiosa, ma di medio- basso livello europeo, come il Benfica e da un ottavo perso pesantamente (sei gol a due) con il Real Madrid, seppur dopo un meraviglioso, ma inutile primo tempo nella gara di ritorno contro i campioni d'Europa.
 
Si poteva fare meglio?
Premessa d’obbligo: senza un tecnico bravo come Sarri, si sarebbe potuto fare sicuramente peggio. Un dato però è stato troppo spesso taciuto. Il valore tecnico dell'organico partenopeo corrispondeva da almeno tre anni al secondo o, esagerando, al terzo migliore della serie A: sembra più che azzardato sostenere che la Lazio o le indebitatissime società milanesi e le loro proprietà straniere, abbiano avuto organici dello stesso livello di quello dei partenopei. Del resto, la storia racconta che l'allenatore toscano prese in eredità -dopo una stagione per molti fallimentare- una squadra priva di tre giocatori che sarebbero stati titolari fondamentali nel successivo triennio, al cui posto giocavano tre pedine il cui valore non era adeguato nemmeno per essere titolari di squadre di metà classifica. Benitez, puntando a vincere anche le coppe, obiettivo più raggiungibile dello scudetto, giocando undici partite in più (pari a ben un quarto del totale) di quelle della stagione successiva e stancando così ulteriormente i suoi giocatori, arrivò comunque a soli sette punti dal secondo posto. Il livello della rosa, dunque, già valeva quella posizione. Il Napoli negli anni di Sarri non ha avuto in organico campioni (fatto salvo Koulibaly), ma una serie di ottimi calciatori, il cui potenziale tecnico in campionato era esattamente quello che, in due anni su tre, è stato raggiunto: nessuna particolare magia, guardando asetticamente i risultati, è stata compiuta. Senza entrare nel merito della polemica aperta da Allegri sulla differenza enorme esistente nella difficoltà tra conquistare il secondo e il primo posto, sicuramente le vere imprese calcistiche sono ben altre. La storia recente del calcio ricorda, restando solo ai maggiori campionati europei, le favole a lieto fine del Leicester di Claudio Ranieri (2015-16), del Kaiserslautern di Otto Rehagel (1997-98), del Montpellier di Renè Girard (2011-12) e del Valencia di Rafa Benitez (2001-02 e 03-04). Andando un pò più indietro nel tempo, sono storiche le imprese compiute in Italia dalla Sampdoria di Boskov (90-91) e del Verona di Bagnoli (1984-85), così come, tornando in Inghilterra, del Nottingham Forest di Brian Clough (1977-78). Esempi di squadre di club capaci di dare più del massimo e restare per sempre nella storia del calcio grazie a una vittoria importante, regalare una gioia immensa ai propri tifosi, diventando vincenti.
 
Quanto è stato bello il Napoli di Sarri?
Se però nello sport giustamente non conta solo vincere, resta la spettacolarità del Napoli visto molte volte in campo durante lo scorso triennio: una squadra che nella sua versione migliore ha offerto grandi partite e divertito anche il pubblico neutrale. Chi ama un calcio preparato maniacalmente dal punto di vista tattico, prevedente una sola uscita di palla (i triangoli) e zero letture, ha avuto di che sgranare i propri occhi. Quella squadra si muoveva in campo secondo giocate tutte predeterminate, senza vere variabili: la mano dell'allenatore era evidentissima. Se hai giocatori tecnici, veloci e in piena forma fisica (e in questo particolare, nella seconda parte del terzo anno, è cascato purtroppo l’asino) giocando in tale maniera risulti molte volte devastante. Ci sono poi ammiratori dell’eccletismo tattico e della capacità di avere il cosiddetto "piano b" e sostenitori della necessità del lasciare spazio all’estro dei giocatori, che meno hanno apprezzato vedere per cento e più partite il ripetersi pedissequo delle stesse manovre, ma lì si entra nei gusti personali, un campo minato dal quale è impossibile uscirne. In ogni caso, i 94 gol segnati dal Napoli di due anni fa restano negli occhi di tutti gli appassionati, ma sono certamente anche figli, oltre che degli schemi di Sarri, di una congenita e elevatissima potenzialità offensiva della squadra, che negli altri due anni ne segnerà 80 (2014-15) e 77 (2017-18), in linea col rendimento offensivo della prima stagione di Benitez (77 reti). Anche se non è molto pregnante con il concetto di spettacolarità, si deve aggiungere che dal punto di vista difensivo Sarri è riuscito a ricompattare una squadra che nel secondo anno del tecnico spagnolo imbarcava troppo facilmente reti. Nel primo (32 reti subite) e nel terzo anno (29) si staccò, anche grazie ai citati tre rinforzi, da quanto aveva fatto la squadra precedentemente (nel secondo anno il Napoli subi lo stesso numero di reti, 39, della prima stagione di Benitez). Numeri che letti nel loro complesso non negano l'ottimo lavoro svolto da Sarri, ma confermano anche  le potenzialità già espresse da una squadra precedentemente incompleta (nei tasselli) e immatura (per l'età e inesperienza di alcuni suoi interpreti decisivi).
 
I rimpianti per la scorsa stagione e le nocive esaltazioni dell'allenatore
Fatta salva la superiorità tecnica dell'organico della Juventus, i rammarici maggiori, paradossalmente, arrivano per la terza stagione dell'allenatore toscano, la scorsa. Quel Napoli, lasciato immutato (nel mercato estivo furono presi due rincalzi come Mario Rui e Ounas) proprio per sfruttare l'entusiasmo e l'inerzia del grande girone di ritorno (48 punti) del 2016-17, poteva vincere qualche trofeo. I giocatori avevano ormai interiorizzato i dettami tattici del suo allenatore e la squadra giocava a memoria. Il 2017 è del resto il periodo di grazia della squadra di Sarri: fa più punti di tutte nell'anno solare, 99, vince 31 delle 39 partite di Serie A giocate; segna 96 reti e ne subisce 31. Tutto gira alla perfezione, o quasi: il Napoli è malamente eliminato dal girone di Champions. Oltre al fortissimo Manchester City, passa lo Shakhtar Donestk, a discapito dei partenopei. In tal senso risulta decisiva la partita inaugurale persa in trasferta contro gli ucraini, oltre che per sfortuna (una mezza papera di Reina e il rigore sbagliato da Milik) per una formazione che sembra dare precedenza al successivo impegno casalingo di campionato (decisamente non proibitivo) col Benevento. In campionato, gli azzurri sono nuovamente campioni d'inverno e sino a fine febbraio la loro marcia in Serie A è da autentica schiacciasassi: vincono ventidue delle prime ventisei partite (perdendone una sola, in casa contro la Juve). A Cagliari, il 26 febbraio, dove gli azzurri si impongono per 5-0, si vede l'ultimo vero splendido Napoli del trienno di Sarri, che però ha già fatto in tempo a farsi eliminare con due inopinate sconfitte interne da Coppa Italia (Atalanta) e Europa League (1-3 contro il Lipsia, che renderà inutile il successivo  successo  per 2-0 in Germania).
Due obiettivi decisamente alla portata degli azzurri, ma trascurati, più o meno inconsciamente. Si sarebbe potuto giocarli con formazioni sufficientemente competitive, composte dal giusto mix di titolari e forze fresche e non, come invece è accaduto, zeppe di giocatori senza i novanta minuti nelle gambe e animati dalla dannosa voglia di strafare per sfruttare una delle pochissime occasioni concesse loro per mettersi in mostra. Con una gestione globale della rosa le grandi squadre europee affrontano i periodi degli impegni infrasettimanali, ma non lo fa invece il Napoli. Se però in sede di analisi si fa notare la particolarità della scelta, subito parte il mantra della "rosa corta": secondo questa teoria, il Napoli è l'unica squadra al mondo ad avere una sostanziale differenza di valore tra i primi quattordici giocatori della rosa e la parte restante dell'organico. Inoltre, possono giocare solo in pochi, perchè sono gli unici a sapere bene i dettami tattici e gli schemi di Sarri, senza i quali questa squadra non è capace di vincere le partite. Non solo, legittimamente, contro squadre dello stesso livello o leggermente inferiore, ma anche quelle nettamente più deboli. Devono giocare gli stessi undici, con i cambi, praticamente sempre gli stessi, scadenzati di dieci minuti a partire dal sessantesimo. Una serie  di dettami che non conosce  deroghe nemmeno se si sta vincendo 3-0 a fine primo tempo o se si deve affrontare tra le mura amiche una squadra che lotta in zona retrocessione. Non si può far notare la singolarità di questa scelta stagionale e dei suoi rischi (demotivare chi non gioca, rendendo meno probanti gli allenamenti, oberare di fatica i migliori, facendoli arrivare stanchi nella parte decisiva del campionato) perché si rischia il sacrilegio. Così viene infatti etichettato l'avere dubbi su alcune scelte gestionali di chi, quasi da solo, avrebbe reso forte il Napoli (in campionato). Quel che è certo, è che gli azzurri negli ultimi dodici turni calano vistosamente e raccolgono "appena"22 punti. Vincono a Torino contro una Juventus rinunciataria, grazie a un gol di Koulibaly negli ultimi minuti, ma già non sono più quelli ammirati sino a qualche mese prima. La settimana successiva dopo quel inebriante ma vano successo, crollano a Firenze, dicendo in pratica addio ai sogni scudetto e chiudendo, di lì a poco il campionato agli oramai celeberrimi 91 punti, quattro in meno dei bianconeri.
 
Una serie di domande senza risposta
Parlare a posteriori è sempre fin troppo facile, cosi come col gioco dei se e dei ma non si è mai ottenuto nulla di utile. Tuttavia, una rivisitazione di quanto accaduto nell'ambiente partenopeo negli ultimi tre anni attraverso qualche domanda, può magari farlo crescere.
Se Sarri fosse stato meno idolatrato avrebbe cambiato qualcosa rispetto a quanto fatto e sfruttato meglio il suo ottimo lavoro? Se la stragrande maggioranza della critica non gli avesse ripetuto per tre anni che il Napoli al secondo posto lo aveva creato esclusivamente lui (e non già Mazzarri, appena due stagioni prima), avrebbe dato maggiore importanza alla freschezza atletica dei suoi principali giocatori? Se maggiormente gli fosse stato ricordato che il Napoli era già stato grande e vincente, a differenza sua, che pur bravissimo, era incappato in sei esoneri nelle serie inferiori e proveniva da un 15°posto in Serie A, forse le cose sarebbero andate diversamente? Noi crediamo che Sarri, uomo molto intelligente e sensibile, si sarebbe posto quasi sicuramente maggiori interrogativi, migliorando ulteriormente il suo comunque ottimo lavoro. Senza essere egli stesso bombardato dall'esaltazione del suo personaggio molto probabilmente non avrebbe avuto la sfrontatezza di rispondere in maniera antipatica, come accaduto più di una volta nel corso del suo terzo anno, a chi gli poneva in maniera educata, in conferenza stampa, domande a lui sgradite. Magari si sarebbe posto maggiori interrogativi e avrebbe cambiato qualcosa.
In una Serie A povera come non mai l'anno scorso, stante la netta superiorita tecnico tattica - repetita iuvant, anche grazie al suo lavoro- del Napoli, rispetto al 70 % delle altre squadre del campionato, avrebbe potuto continuare ad approfondire sempre più il suo approccio col turn-over, timidamente tentato nei primi due anni. Davvero il Napoli non poteva vincere lo stesso numero di partite con una turnazione sistematica di 3-4 titolari? Non sempre, ma almeno nelle partite in casa contro le squadre di medio-bassa classifica. Davvero non si poteva far rifiatare maggiormente a partita in corso i titolari quando i match avevano un esito già segnato con 2-3 gol di scarto a favore della sua squadra? Davvero la rosa era così poco competitiva da aver bisogno di 13 giocatori che sapessero a memoria schemi e trovarsi tra di loro per vincere partite contro squadre mediocri? E se anche, nel caso improbabile, un paio di volte fosse andata male adottando una gestione diversa del gruppo, le tante energie risparmiate non sarebbero tornate indietro con gli interessi negli ultimi tre mesi di campionato, nei quali si è viaggiato, come visto, a una media inferiore ai due punti a partita? Non sarebbe stato utile essere più imprevedibile nello schieramento della formazione e negli schemi proposti, per provare a sorprendere tecnici preparati che, alla fine, lo avevano studiato e compreso, trovando in molti casi degli stratagemmi per opporsi efficacemente alla sua squadra? Soprattutto, con meno integralismo e maggior turnover si sarebbe potuto puntare a superare il girone di Champions (portando introiti importantissimi alla società) o, a quel punto, provare a vincere in Europa League e Coppa Italia? In gare di andata e ritorno il Napoli aveva buonissime possibilità contro tutte, maggiori che in campionato, dove il valore tecnico emerge ancora più facilmente. Sono domande ovviamente senza risposta: resta che il Napoli ha fallito (anche per sfortuna e decisioni arbitrali molto discutibili a favore della Juventus) tutti i suoi obiettivi. La Roma,in fin dei conti, utilizzando sistematicamente il turnover, ha fatto quattordici punti in meno in campionato, ma è stata capace di arrivare in semifinale di Champions, a un gol dalla finale, dopo aver eliminato Atletico Madrid (che poi vincerà l'Europa League), Shaktar Donestk (proprio loro), il Barcellona di Messi campione di Spagna, ha regalato gioie e ricordi indelebili ai propri tifosi. Tralasciando la barca di fondamentali milioni nelle casse societarie disastrate, ha forse maggiormente lasciato il segno del Napoli la scorsa stagione, sicuramente quantomeno dal punto di vista economico e dell'accresciuto prestigio internazionale della squadra.
 
 Il significato dell'arrivo di Ancellotti a Napoli
Ad ogni modo, che il Napoli arricchito dell'esperienza importantissima degli ultimi otto anni di competizioni europee sia da almeno un paio di stagioni dotato di un ottimo organico lo ha confermato più di tutti chi ha deciso di allenarlo nel prossimo triennio. Che la squadra abbia imparato conoscenze calcistiche importanti da guide tecniche, diversissime tra loro, ma sempre eccellenti (partendo da Mazzarri, passando a Benitez e finendo a Sarri) e che i suoi giocatori migliori siano all'apice della loro maturazione umana, tecnica e professionale, ce lo ha indicato, involontariamente, Carlo Ancellotti. Nessuno, nemmeno chi come il tecnico emiliano ha vinto tre Champions e arricchito le bacheche di cinque club in cinque nazioni diverse, ha allenato e si è fatto amare da svariati campioni, è esente dalla categoria del dubbio: eventuali perplessità sulla conduzione del tecnico emiliano sono sacrosante e possono essere messe in conto. Dove però i dubbi non sono a rigor di logica plausibili, è sulla competenza calcistica e sull'intelligenza umana di un uomo capace di avere a che fare con calciatori super star e con l'ego e i caratteri instabili di gente come Berlusconi, magnati russi, emiri arabi, Florentino Perez, uscendone sempre vincitore. Tutto si può pensare tranne che, accettando di venire ad allenare il Napoli, molto ingenuamente non sapesse che avrebbe dovuto provare a fare bene senza poter contare su acquisti altisonanti. Se qualunque appassionato di calcio, napoletano e non, ha imparato la gestione imprenditoriale, attentissima ai bilanci, del suo presidente, di certo sembra impossibile pensare che una persona scaltra e con l'esperienza di Ancellotti abbia creduto a molto ipotetiche promesse di investimenti sul mercato da parte di De Laurentiis. Se è venuto all'ombra del Vesuvio, Ancellotti lo ha deciso per un motivo principale: ha ritenuto che questa squadra fosse (molto) forte, a prescindere da chi fosse sulla sua panchina. Non lo ha fatto certamente volontariamente, ma, a prescindere dai risultati che otterrà, il suo solo sedersi sulla panchina del Napoli, è la più grande prova che questa squadra è ed è stata forte, a prescindere dalle ottime guide che ha avuto.
La migliore rassicurazione possibile per il futuro della squadra partenopea.