Ieri guardavo un dibattito serale in una trasmissione sportiva francese. Degli ex calciatori commentavano le vittorie del Lipsia e dell’Atalanta esaltando il valore del collettivo e celebrando un “nuovo modello di calcio totale” che presto avrebbe prevalso “sur le football des stars”.
“I grandi giocatori ormai sono delle imprese a tutti gli effetti. Ma questo non è calcio”.
Nulla da eccepire, se non che la loro insistenza palesava un odio malcelato verso la squadra che di fatto ha annichilito il campionato francese, il Paris Saint Germain. Dentro tifavano tutti per il Borussia Dortmund, ma non potevano darlo a vedere.
Quando gli è stato chiesto se i bergamaschi sarebbero potuti arrivare in fondo alla competizione, gli sguardi si sono fatti meno sicuri.
“Senza campioni è dura” ha bofonchiato qualcuno. Ma poi si è ripreso subito: “Questo non è quello che conta. Faranno sicuramente delle belle partite”.
Allora ho cambiato canale e ho guardato un documentario su Maradona.
I giocatori sono delle imprese. Questa frase continuava a girarmi nella testa mentre guardavo Diego dare degli schiaffetti ad un povero giornalista napoletano. Lo stava minacciando per qualcosa e non aveva proprio l’aria di scherzare.
Poi c’erano le feste di camorra, il bambino che non aveva riconosciuto, la fuga da Napoli, di notte come un ladro.
Allora ho capito. Avevo trovato la risposta ad una delle tante domande oziose del calcio contemporaneo: Messi o Ronaldo?
Maradona, tutta la vita.
Perché el Pibe de Oro ha fatto qualcosa che gli altri due non potranno mai permettersi. Ha rovinato tutto.
Essere un’impresa per un giocatore significa avere uno staff come quello di Ronaldo che soppesa ogni tuo singolo gesto. “Quando finiro’ di giocare diventero’ il numero uno degli imprenditori”, ha detto il portoghese. E a giudicare dagli alberghi e dai centri tricologici c’è da credergli.
“Messi parla sul campo. È un leader tecnico” dicono i compagni di lui. Che tradotto significa che fuori dal campo non è che dica cose molto interessanti e che i leader veri, quelli che fanno i discorsi nello spogliatoio, forse sono altri.
Non sto parlando dei giocatori più forti. Sto parlando dei miti. Di George Best, di Gilles Villeneuve. Di quegli sportivi che non tergiversano come Buffon o Valentino Rossi. Ma bruciano, si consumano, perché sanno che la caduta sarà inevitabile.
Se ti droghi fino al mercoledi’ e poi cerchi di ripulirti per la domenica i nemici non possono essere gli avversari. Loro semmai sono un’occasione, sono l’unica speranza di scomparire nel gioco. Perché in quel gioco puo’ succedere tutto, anche di vincere la guerra contro l’Argentina.
L’Atalanta è una squadra fantastica, che ci emoziona. Ma i grandi sportivi, quelli sono un’altra cosa ancora. Giocano come se vivessero, e in certi momenti non sapresti distinguerli, lo sport e la vita.
David Foster Wallace li descriveva così:
“Anche il tennis è un’impresa essenzialmente tragica. Non c’è differenza. Tranne che si ha l’opportunità di giocare”.
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