L’eco degli antichi rintocchi delle campane della cattedrale di San Basilio attraversa l’ovattato, gelido silenzio della Piazza Rossa e oltrepassa le mura del Cremlino. Ogni rintocco accompagna i battiti del cuore, in tumulto, di un uomo che percorre un immenso e cupo corridoio che porta all’ufficio del personaggio più potente della Russia dopo Stalin. 
Qual è il problema… cosa c’è che non va ?", c
hiese con voce tagliente Lavrent Pavlovic Berjia.
L’uomo terrorizzato era l’allenatore della Dinamo di Mosca, la squadra della polizia segreta, per tradizione presieduta dai capi del NKVD (il Commissariato del popolo per gli affari interni, in pratica la polizia segreta NdR). A Berija, a differenza dei suoi predecessori, il calcio piace  immensamente. I suoi svaghi sono essenzialmente due: le ragazze e le partite della Dinamo.
Il tecnico tremebondo dunque sa che una risposta sbagliata potrebbe condurlo dentro una tetra cella della Lubianka – la sede del NKVD  – o, peggio, in un Gulag siberiano. Si torce le mani, annaspa, riesce ad aprire bocca e ne fuoriesce una specie di sibilo.
“Be”…
Berija sollevò il capo dalle carte che stava sfogliando e il sinistro luccichio dei suoi occhiali lanciò un riflesso che colpì il viso dell’uomo come una staffilata.
Allora… sto aspettando …".
La voce di Berija era  pacata, ma dura, celava una promessa di punizione che sarebbe stata inesorabilmente mantenuta.
"Lo Spartak paga stipendi migliori". Riuscì finalmente a dire.
Tutto qui? Insomma, mi stai dicendo che le piume e la lanugine (espressione derisoria utilizzata dalla tifoseria della Dinamo per indicare lo Spartak Ndr) prendono più soldi dei servitori dell’NKVD.”
Berija si rivolse al suo attendente e disse perentoriamente: “Vediamo di rimediare al più presto. Altro?"
Ci sono dei problemi con la difesa ma, speriamo…".
Berija interruppe bruscamente l’allenatore e con freddezza esclamò: “Forse una compagnia di artiglieri potrebbe essere una buona difesa. Si può organizzare. Ma si ricordi che si alleneranno anche alle sue spalle. Le consiglio di riflettere su questa conversazione.”

ANTICHI RIVALI
Il colloquio è tratto dal libro – Il calcio negli anni – di Nikolai Starostin, fondatore dello Spartak di Mosca.
Per aiutare la famiglia giocò sia al calcio che a hockey. Si distinse, in maniera eccellente, nelle due discipline. Divenne poi capitano della nazionale in entrambi gli sport e, successivamente, fu allenatore dello Spartak e della nazionale sovietica di calcio. Starostin, come molti della sua generazione, non sfuggì alle cosiddette purghe staliniane che segnarono drammaticamente la vita di tanti in Russia e scontò dieci anni in un Gulag. Delle purghe, Berija, fu uno zelante esecutore. Stalin voleva un NKVD meno arrendevole, non più umano, e di tanto in tanto ordinava al fedele Lavrent di uccidere senza ricorrere all’arresto, men che meno al processo. Berija s’incaricò anche di regolare faccenduole private di casa Stalin, come, ad esempio, una severa lezioncina al regista Aleksj Kapler colpevole di avere una relazione con la figlia del dittatore. Organizzò un pestaggio scientifico, senza, naturalmente, eccedere solo un avvertimento.
Berija, come Stalin, era nato in Georgia. Qui imparò a giocare al calcio. Una mezz’ala sinistra che si affidava, ovviamente, più ai muscoli che alla tecnica. Nei primi anni ’20 giocò contro Starostin che non gli fece, letteralmente, toccare palla. Ovviamente, Berija se la lego al dito. Le soddisfazioni che non ebbe come giocatore di calcio le compensò con le sue perfomance politiche. Una carriera che lo portò ai massimi vertici delle istituzioni sovietiche.
Nel 1938 e nel ’39 lo Spartak vinse il campionato sovietico, cosa che fece schiumare di rabbia il potente e crudele Berija. Da qui la convocazione dell’allenatore della Dinamo. Starostin sopravvisse agli orrori del Gulag grazie anche ai suoi trascorsi di calciatore. Il comandante del campo lo nominò allenatore della squadra del campo. Non fu mai punito. I compagni di prigionia ascoltavano, estasiati, i suoi racconti calcistici “Per la maggior parte delle persone  – si legge nel suo libro di memorie – il calcio era l’unica, e a volte ultima, possibilità e speranza di conservare nelle loro anime una piccola isola di emozioni sincere e di rapporti umani.”

CORREVA L’ANNO 1934
In Brasile, paese che con l’ars pedatoria ha una certa confidenza, da tempo immemorabile viene tramandata una massima che spiega, meglio di qualsiasi analisi sociologica, l’intensità della passione calcistica. “Anche il villaggio più piccolo ha una chiesa e un campo da calcio… be’ la chiesa non sempre, ma il campo da calcio di sicuro.”
Non è un’esagerazione. Qualcuno ha detto che i proverbi sono la saggezza dei popoli.
Ma, andiamo al punto. Quando un gioco attira, affascina milioni e milioni di persone, smette di essere un gioco, diventa qualcosa di diverso. Insomma, per farla breve, il calcio non è mai solo calcio. Può aiutare a fare guerre, qualche rivoluzione, ma, soprattutto, ha affascinato, dittatori e leader politici democratici.

Nel 1934, in Italia, il colore dominante era il nero. Il governo in carica era quello di Benito Mussolini. Ha conquistato la guida del Paese il 30 ottobre del 1922. Il clima sociale non era certo dei più leggeri, più di una nube si affacciava minacciosa all’all’orizzonte. Ma, l’italica stirpe, come sappiamo bene, è resiliente, come si direbbe oggi. Insomma, si trovavano occasioni di spensieratezza nella musica, nel ballo e, naturalmente, anche nel calcio. Si vestiva in camicia nera, si andava alle adunate nelle piazze di paesi e città. Il duce e i gerarchi si salutavano con il ‘saluto romano’.
Il clima di quell’anno è mirabilmente descritto in un libro di Alberto Moravia, dal titolo appunto 1934, pubblicato nel 1982. Il protagonista, Lucio, è un intellettuale antifascista. Tormentato spiritualmente, pensa che il suo disagio esistenziale sia, in qualche modo, causato dai regimi dittatoriali esistenti sia in Italia che in Germania. Però, dopo profonda riflessione, giunge alla conclusione che sarebbe stato disperato anche se fascismo e nazismo non fossero al potere. “Sapevo benissimo - dice Lucio alla fine di un intenso percorso introspettivo - che, pur nutrendo la stessa avversione, non mi sarei ucciso per il regime politico dominante.”
Ecco, questo era, scomodando Hegel, l’ethos imperante presso il popolo, a prescindere dalla cultura e dall’istruzione di ogni singolo. Diciamocelo, senza false ipocrisie, gli italiani, pur con qualche mugugno, si erano adeguati all’andazzo.

IL MUNDIAL DEL DUCE
Nell’ottobre del 1932 si svolse a Stoccolma il congresso della FIFA. Si doveva decidere l’assegnazione della seconda edizione della Coppa del Mondo di calcio. La prima  si era svolta  in Uruguay e l’avevano  vinta  i padroni di casa. I rappresentanti italiani supportati dal regime, che aveva compreso la rilevanza politica dell’avvenimento, riuscirono nell’impresa di far assegnare al nostro paese l’organizzazione della Coppa del Mondo di Calcio 1934. Un grande successo diplomatico, fortissimamente perseguito e alla fine ottenuto da Benito Mussolini.  
Il duce aveva ben chiara la prospettiva strategica dell’assegnazione. Sapeva  che avrebbe conferito all’Italia uno spessore notevole in campo internazionale. Ma l’aspetto più importante era la ricaduta mediatica che scaturiva dall’evento. Incrementava il prestigio della nazione e anche l’amore degli italiani verso il calcio e, soprattutto, verso il regime. Insomma, come ormai è comprovato storicamente, le dittature, da sempre,  mascherano le durezze e, spesso, le crudeltà dei loro governi, ricorrendo a vetrine propagandistiche di forte impatto comunicativo e di aggregazione. Non a caso il regime fascista non badò a spese nella costruzione di nuovi stadi – tutti edificati in stile razionalista – e soprattutto nel potenziamento dei trasporti.
Le città scelte per ospitare il mondiale, furono: Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino e Trieste. Il 10 giugno 1934 si disputò a Roma – Stadio Nazionale del PNF – la finalissima tra Italia e Cecoslovacchia. Guidati da Vittorio Pozzo gli azzurri batterono per 2 a 1 gli avversari dopo i tempi supplementari, grazie ai goal di Orsi e Schiavio. I cechi erano andati in vantaggio con Puc.
Secondo alcuni storici il giorno della finale Mussolini fece sapere ai giocatori italiani che, se si fossero laureati campioni, avrebbero potuto chiedere al Duce qualsiasi cosa, ma in caso di sconfitta, avrebbero fatto bene a preoccuparsi della loro incolumità.
Quattro giorni dopo la partita, a Venezia, si svolse il primo incontro tra il duce e il nuovo cancelliere tedesco Adolf Hitler. Un incontro destinato a segnare drammaticamente la storia del nostro paese.

LA GAULIGA DI HITLER
Secondo lo storico K.D. Bracker, Adolf Hitler, è stato “il più grande demagogo del secolo è anche un maestro della propaganda.”
Su questo versante si avvalse anche dell’abilità di Joseph Goebbels, ministro della propaganda, colto, intelligente, fanatico e malefico. Due specialisti della mistificazione che, naturalmente, puntarono subito sullo sport come cassa di risonanza dei provvedimenti normativi e legislativi del regime nazista. Inevitabile, dunque, che campionati nazionali e squadre di calcio diventassero parte preminente della propaganda ufficiale. La diabolica coppia non perse tempo.
Passato poco meno di un anno e mezzo dalla nomina di Hitler a cancelliere del Reich, fu creata la Deutsche Reichsbund für Leibesübungen (la “Lega del Reich per l’esercizio fisico”, NdR), ente ufficiale responsabile di organizzare e supervisionare tutto ciò che riguardava lo sport nel Terzo Reich. A dirigerla, ovviamente, fu chiamato un personaggio che di sport capiva poco o nulla, ma era zelante e puntiglioso nell’applicare le direttive che venivano dalla Cancelleria. Tra i primi provvedimenti intrapresi l’abolizione dell’autonomia delle varie associazioni sportive, in primis quella della federazione calcio. Il campionato di calcio tedesco fu rinominato Gauliga. Molti club furono classificati come Judenklubs (club ebrei). Tra questi il Bayern Monaco, per via del suo presidente Kurt Landauer che fu rinchiuso a Dachau, e grazie al suo passato di soldato durante il primo conflitto mondiale fu rilasciato dopo 33 giorni di prigionia. Mentre tutti i suoi fratelli, tranne uno, furono assassinati dai nazisti, lui riuscì a emigrare in Svizzera. Nel frattempo, oltre a portare a compimento queste follie, i signori della guerra lavoravano per mettere a punto la macchina delle Olimpiadi di Berlino del 1936. Evento a cui  Hitler teneva in particolar modo perché voleva fosse finalizzato alla celebrazione della razza tedesca.

DON’T CRY FOR ME ARGENTINA
Isabel Martinez de Peròn
nel 1974 diventò presidente dell’Argentina. Subentrò al marito Juan Domingo Peròn morto l’anno prima. Rimase  in carica solo due anni. Nel 1976 fu deposta da un ‘golpe’ militare. Fu l’inizio di uno dei periodi più bui della storia argentina.
La giunta militare era guidata da Jorge Rafael Videla. Una personalità paranoica portata a vedere nemici ovunque: dalla guerriglia di sinistra dei Montoneros a inermi e incolpevoli cittadini che furono vittime di “sparizioni”, torture, furti di bambini, confische arbitrarie e ogni tipo di violazione dei diritti umani. Chi ha visto il film Garage Olimpo del regista Marco Bechis (scampato alle persecuzioni) capirà di cosa parliamo.

La Giunta Militare installò, nell’officina meccanica della Marina (ESMA), un sofisticato complesso di camere delle torture, distante solo 600 metri dallo Stadio Monumental di Buenos Aires dove, nel 1978, fu alzata al cielo quella che la stampa estera definì la Coppa della vergogna.
Ma, andiamo con ordine.

La Junta militar perseguì crudelmente qualsiasi pubblicazione, libro, manifestazione che osasse mettere in dubbio la sacra trinità di Dio, patria e famiglia. Il concetto-cardine dell’azione governativa era essere nazionale. Compendiava il nuovo grande ideale argentino, in perfetta aderenza all’ideologia di regime. Ovviamente, in tale contesto di pensiero, il calcio assunse un ruolo strategico. Videla di calcio non sapeva nulla e di certo non ci andava matto. Però una cosa sul Futbol’aveva capita. Piaceva alle masse e tanto anche. Passione che in Argentina può diventare delirio.
Ancora vivo Peron, l’Argentina si era candidata all’organizzazione del Mondiale 1978. C’erano state forti perplessità sull’idoneità del paese come sede dell’evento, ma Joao Havelange, presidente brasiliano della Fifa, fece valere il suo autorevole parere e fu Argentina ’78. Si disse, allora, ma sono vociferazioni che vanno prese con il beneficio d’inventario, che l’assegnazione fu concessa in cambio della liberazione del figlio di  un diplomatico brasiliano. Videla, non si lasciò sfuggire la grande opportunità. Ordinò che si agisse subito per la perfetta organizzazione dell’evento “anche se dovesse costare cento milioni” disse ai suoi collaboratori. Per nascondere le atrocità, le esecuzioni sommarie e le torture di vario genere e grado, il Mondiale era una maschera perfetta.

LA PROTESTA DI CRUYFF
L’Argentina arrivò seconda nel suo girone, passò comunque il turno. In quello successivo doveva battere assolutamente il Perù. Non era riuscita a vincere con i brasiliani e adesso quindi doveva cercare di seppellire sotto una montagna di goal i peruviani per usufruire della differenza reti. Fecero cappotto: 6 a 0. Ma, a detta di molti, si trattò di un risultato che destò fortissimi sospetti. Negli anni non sono emerse prove a sostegno dei sospetti, anche se, considerati i personaggi, preposti all’organizzazione dell’evento, si potrebbe, forse, concludere che a pensar male si fa peccato, ma non si sbaglia mai. Come diceva un politico delle nostre parti, che di trame e congiure se ne intendeva.

Arriviamo dunque alla finale.
Per gli argentini c’era un brutto cliente: l’Olanda degli anni '70. Mica roba da ridere.
Non giocò Cruyff. Per protesta contro le violazioni dei diritti umani si rifiutò di partecipare a quei Mondiali.

La partita fu durissima. Arbitrava l’italiano Gonella che fu accusato di eccessiva indulgenza nei confronti degli argentini, i quali le studiarono tutte per innervosire gli olandesi oltre a una serie di falli da Codice Penale.
L’Argentina vinse per 3 a 1 e Videla, soddisfatto e tronfio in tribuna, trasformò quella vittoria nella glorificazione dei valori della patria.
Un trionfo il cui clamore coprì le urla di dolore provenienti da quel Garage Olimpo, poco distante dallo Stadio Monumental.