È il 23 maggio 2007. Colori, bandiere, striscioni, cori ed entusiasmo animano le piazze di Atene in attesa della finale. Non una semplice finale, ma LA finale. Una finale che è occasione di rivalsa sui Reds. Una finale che bisogna vincere. Una finale che deve riportare in alto la dignità di quella casacca rossonera che tanto aveva sofferto qualche anno prima.
Sono le 20 e 45, tutti i 22 giocatori si trovano già in campo: è tutto pronto. Fandel prende in mano il fischietto e da il via alla gara.
Tutti a tenersi per mano, tutti a stringere e a baciare lo stemma inciso sulla maglietta del proprio idolo. La gioia per essere arrivati fin lì, mista alla tensione per la finale e al timore di un Istanbul 2.0, pervadono i cuori rossoneri.
Il destro di Alonso fa tremare tutti. Non c’è storia: il Liverpool sta dominando. Il Milan è incapace di creare gioco e le sue stelle sembrano aver smesso di brillare. Però, all’improvviso, qualcosa in fondo a quel lungo e interminabile tunnel nero, pare risplendere: una luce, una speranza, che si chiama Pippo Inzaghi.
È stato lui, quella magica sera, il protagonista della finale.
È stato lui a portarci sul tetto d’Europa, a farci abbracciare la nostra settima Champions League e a regalarci incredibili emozioni.
Sono quel tipo di emozioni che non si scordano più e che, al solo ricordo, ti fanno scendere una sottile goccia di pianto giù per la guancia. Ed è per questo che quell’alto portierone, di appena 18 anni, che oggi sta al centro dell’attenzione mediatica, è così dannatamente importante.
È da lui che si deve ripartire e spetta a lui il compito di riportarci a vivere quelle forti sensazioni (che appartengono di diritto al popolo rossonero). Lui per primo si deve issare il Milan sulle spalle e lo deve ricondurre sulla vetta d’Italia e d’Europa.
E no, affermando che è una bandiera, non si sta sovraccaricando il ragazzo: effettivamente lui è già una bandiera. Perché tutte quelle azioni vili e quegli insulti, che hanno impregnato i social media durante questa turbolenta settimana, non sarebbero mai avvenute, se non per amore.
Un amore vero e che non ricadrebbe nell’ipocrisia qualora si decidesse di riaccogliere il ragazzo anche dopo un primo rifiuto. Un amore (sono sicuro) corrisposto anche dallo stesso giocatore, che non ha fatto quel che ha fatto senza un perché. Un amore difficile e che necessita ancora di essere coltivato e maturato, ma che riporterà il Diavolo a fare dell’Europa il suo inferno.
S.L.
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