Ormai al Festival di Sanremo sono stati dedicati fiumi d'inchiostro, nel bene e nel male. Se ne è parlato in tutti i modi e -considerando gli obiettivi aziendali della Rai - questo è un bene: tutto è concesso (e gradito!) purché se ne parli, direbbe qualcuno. Ciò che è passato sotto silenzio è però il vero punto d'interesse dell'intera questione, ossia tutto quell'insieme di variabili che finiscono per essere, di fatto, le condizioni di possibilità non solo del Festival in sé (a questo si è fermata la critica), ma della ricezione stessa del Festival. Una riflessione davvero penetrante deve allora cogliere l'assist fornitole dall'evento per andare a decifrarne le origini, la portata storico-culturale, il senso profondo.
Sanremo è stato, in fondo, l'apoteosi del paradigma liberal progressista che va imponendosi in Occidente da molti secoli a questa parte e lo è stato anche perché ciò che è accaduto sul palco dell'Ariston è accaduto proprio quest'anno. In un contesto dominato dall'ansia per la pandemia e per le sue conseguenze tanto sanitarie quanto economiche, è andata in scena una vera e propria ribellione dell'umano che ha urlato in tutti i modi la sua decisione: l'andare oltre dell'Italia sanremese affidandosi anima e corpo alla propria volontà di potenza.
Non può che tornare in mente, in questo senso, ciò che proprio Nietzsche descrive nell'aforisma 96 di Aurora (1881): un'umanità nuova ed emancipata da pregiudizi religiosi e morali, questo è lo scopo, i cui componenti si possano finalmente riconoscere e salutare tra loro con quello stesso segno che era appartenuto a Costantino. Il rinnegamento completo della dimensione del trascendente, dell'ulteriorità e della verticalità dell'esistenza, è il segno della vittoria della società adulta dipinta dal filosofo tedesco: una società che, in tempo di sofferenza e prostrazione, sceglie di gettare via la soluzione ninivita della penitenza - soluzione tanto greca quando giudaico cristiana - per riaffermare invece la sua indipendenza e - con essa - il suo isolamento. Che ci sia stata blasfemia o meno, volgarità o meno, lo si lascia agli esperti di morale: un'analisi attenta non può tuttavia passare sopra a questo fenomeno unico nella storia dell'umanità, la scelta dell'ubris, dell’eccesso, non più come origine dei problemi da rinnegare, ma come unica soluzione da percorrere con orgoglio e convinzione (forse disperata).
Resta sicuramente un grande senso di vuoto accompagnato da un fortissimo stimolo alla riflessione: è questa, davvero, la libertà? È questo ciò di cui aveva bisogno il Paese sfinito? Sembra, ma forse lo è davvero, un altro mondo quello nel quale Montesquieu arrivava a dire che "quando l'uomo è arrivato ad essere figlio di Dio, a quel punto ha smesso di essere schiavo dell'uomo".
Fatto sta che, ad oggi, il figliol prodigo non ha nessuna intenzione di far ritorno a casa: che non sia arrivato ad odiarsi a tal punto da preferire il fango e i porci?
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