“La Roma che conosco” è una vecchissima canzone di un cantautore romano poco noto, Marco Conidi. E’ un pezzo che parla di Roma attraverso la Roma, perché alla voce del cantante si uniscono quelle, inconfondibili, di Francesco Totti e Daniele De Rossi (oltre a quelle meno note di Alberto Aquilani e addirittura Gianluca Curci). A un certo punto, si sente l’allora Capitan Futuro (mai soprannome fu meno azzeccato) recitare un verso che suona quasi profetico: “la Roma... n’dov’è che devono annà tutti quanti?”. Più o meno ciò che ho pensato quando De Rossi ha annunciato al mondo la fine della sua storia con la Roma.

“N’dov’è che deve annà Daniele?”

E’ il 15 maggio 2019. In una conferenza stampa in cui la tensione si taglia con il coltello, il centrocampista di Ostia ringrazia la società per l’offerta di passare dal campo alla scrivania, ma la declina perché si sente ancora in grado di giocare. Non potendolo fare con i colori della sua vita, lo farà altrove, anche se non è chiaro dove.
De Rossi ha sempre detto di cullare il sogno di indossare la gloriosa maglia del Boca Juniors, ma non è detto che gli Xeneizes siano disposti a ingaggiare un calciatore di 36 anni, reduce, inoltre, da una stagione costellata di infortuni. In ogni caso, non c’è troppo spazio per le supposizioni. L’addio di Daniele De Rossi è una mazzata per tutti. I dieci giorni che separano l’annuncio dalla sua ultima partita sono un interminabile delirio collettivo. Una sorta di incubo lucido che ognuno vive male in modo diverso. Tra attacchi feroci all’“azienda Roma” e celebrazioni di ogni genere dell’ultima bandiera ammainata così brutalmente, la catarsi si consuma nel momento in cui Daniele De Rossi, al termine di Roma-Parma, bacia il suolo di fronte alla Curva Sud.
Qualche decina di metri più su, io non ci provo neanche a trattenere le lacrime. E’ un momento che va vissuto per quello che è: il momento del distacco alla fine di un'infinita storia d’amore. Mentre il popolo giallorosso piange cantando e canta piangendo per Daniele De Rossi, Daniele De Rossi si toglie per l’ultima volta la maglia giallorossa. Nessuno sa cosa succederà all’altro. Il futuro è un mistero troppo angosciante da affrontare.
La domanda, però, resta: “n’dov’è che deve annà Daniele?”

Daniele va dall’altra parte del mondo, o quasi. A fine luglio si imbarca su un volo per Buenos Aires, per coronare il suo ultimo sogno calcistico: entrare alla Bombonera con la maglia del Boca. Mentre a Roma la scia di polemiche sul suo addio non accenna a placarsi (per forza, se a Trigoria tocca rivedere N’Zonzi e non lui), nella capitale argentina si godono “el Tano”, sbarcato anche grazie ai buoni uffici del vecchio compagno Nicolas Burdisso. Il video con cui gli Xeneizes annunciano Daniele De Rossi è un condensato di emozioni difficile da spiegare. Per me, è un mix tra la malinconia di vedere in altri colori chi più di tutti ha incarnato il giallo e il rosso, e la gioia di vedere un uomo fiero di aver raggiunto un traguardo dell’anima.
A prevalere, però, resta un dolore che sembra impossibile lenire.
Non va molto meglio neanche un paio di settimane dopo, quando Daniele De Rossi esordisce con la maglia del Boca e mette a segno uno dei suoi gol: un colpo di testa su calcio d’angolo dopo essersi liberato di un avversario come un cane si libera di un insetto. Il Boca perde la partita, ma Daniele corre e lotta come ai vecchi tempi, alimentando i dubbi sulla scelta della Roma di non rinnovargli il contratto da calciatore. Nella Città Eterna, la De Rossi-mania tocca vette paragonabili a quelle argentine: tutti vogliono la sua nuova maglia gialloblu; tutti sanno vita, morte e miracoli della sua vita oltreoceano; tutti insultano la società che l’ha lasciato andare.

Poi, piano piano, le cose cambiano. Dopo un inizio stentato, la Roma di Fonseca comincia a ingranare, facendo dimenticare, almeno in parte, l’addio non di una, ma di due bandiere ad appena un mese di distanza l’una dall’altra. Contemporaneamente, dall’altra parte del mondo, la stella di Daniele De Rossi comincia a eclissarsi. Due decenni di battaglie non sono uno scherzo, e i vecchi acciacchi rendono il suo viale del tramonto un vero e proprio calvario. Con gli Xeneizes, De Rossi raccoglie appena sette presenze, prima di dire basta. Una decisione sofferta, come ammette lui stesso in perfetto castellano, ma maturata nell’interesse esclusivo dei suoi affetti familiari. Liberi di crederci o meno, poco importa. La notizia è che Daniele De Rossi smette con il calcio giocato (vedremo quando e come inizierà a “studiare da allenatore”). Nella mia testa, a martellare torna la stessa domanda di sei mesi fa: “n’dov’è che doveva annà Daniele?”

Al di là delle motivazioni che l’hanno spinto a scegliere di lasciare il Boca, sempre di ritiro si tratta. Mi chiedo, dunque, cosa sia cambiato (o cosa De Rossi immaginava potesse cambiare) rispetto allo scorso maggio. Daniele De Rossi non poteva mentire a sé stesso. E’ troppo intelligente, troppo maturo, troppo sopra la media per ignorare il suo fisico, i suoi infortuni, la sua carta d’identità. Eppure, a maggio, Daniele De Rossi ha dichiarato di sentirsi ancora calciatore. Sono bastati sei mesi per dimostrare il contrario e, di conseguenza, alimentare due dubbi.
Il primo: che la scelta di volare oltreoceano fosse un modo di Daniele De Rossi per dimostrare alla Roma che si sbagliava sul suo conto.
Il secondo: che la Roma, in fondo in fondo, non aveva tutti i torti. E attenzione, questo non può in nessun modo scagionare la società. La separazione da De Rossi resta comunque un peccato mortale per le modalità con cui si è consumata. Tuttavia, a posteriori, non si può far finta di non vedere la realtà: Daniele De Rossi lascia l’Argentina per riavvicinarsi alla sua famiglia, ma non lo fa da calciatore.

Daniele De Rossi doveva davvero attraversare un oceano per fare i conti con se stesso e realizzare che il momento di dire basta fosse giunto e passato? Probabilmente lo sa solo lui, ma da ieri pomeriggio io non riesco a trovare pace. Continuo a chiedermi se possa bastare la voglia di dimostrare di essere ancora un calciatore a “macchiare” una storia d’amore con pochissimi eguali nella storia del gioco. Continuo a chiedermi se la voglia di coronare un sogno sportivo sia stata dettata da un capriccio, più che dalla lucidità. Continuo a chiedermi se Daniele De Rossi fosse sincero ieri pomeriggio. Poi ci ripenso e mi vergogno di me stesso. Perché Daniele De Rossi non merita tutto questo, da nessun punto di vista. Per me, Daniele De Rossi è la Roma come nessun altro prima di lui, e forse neanche dopo di lui. Anche se ha “macchiato” la sua carriera, anche se è volato oltreoceano per un capriccio, anche se ieri pomeriggio non era del tutto sincero.

Daniele De Rossi è e resta la bandiera più visceralmente romanista che la Roma e i romanisti possano sventolare.
Daniele De Rossi è e resta uno dei motivi per cui sono più orgoglioso di essere romanista. Ma ciò che più conta è che, da ieri pomeriggio, quella domanda ha finalmente una possibile risposta che mi piace.

“N’dov’è che deve annà Daniele?”

“A casa sua.”

A Roma. Alla Roma. Dove c’è più bisogno di lui, della sua vena sul collo e del suo cervello. Del suo romanismo viscerale, quasi primitivo. Se chi di dovere vorrà, sono sicuro che Daniele De Rossi non si tirerà indietro.