Il calcio in Italia è considerato come lo sport nazionale per antonomasia: ogni giorno, in ogni famiglia del bel paese, c'è sempre un bambino che alzandosi dal letto dirà: "da grande voglio fare il calciatore".
Esattamente dodici anni fa, anche il sottoscritto (che di anni ne aveva undici) provò a pronunciare quella magica frase, che però è rimasta solamente un sogno proibito. In un paese dove tutti si sentono campioni prima e allenatori poi infatti, non tutti veniamo dotati alla nascita di piedi sensibili come quelli dei grandi talenti. Ed è per questo che quel bambino che in una fredda mattina di novembre realizzò che da grande voleva fare quello che un certo Tommaso Rocchi faceva sembrare fin troppo facile, si è ritrovato a dover convivere con una grandissima, scomoda verità: non tutti sono nati per fare il calciatore. In realtà quel bambino ha impiegato all'incirca oltre centro domeniche trascorse in panchina prima di capire a pieno la realtà delle cose, e decidersi a orientarsi verso altri lidi: dal basket alla pallamano, passando per la scherma; di sport, quello che ormai era diventato un adolescente, ne ha girati una marea, senza però concedere una possibilità al ciclismo.

La bicicletta

Nel bel mezzo di tutta questa storia, c'è un papà che di fronte alle evidenti difficoltà ad entrare a pieno regime nel mondo del pallone da parte del proprio pargolo, ha provato a lanciargli ogni possibile segnale per portarlo sulla retta via del ciclismo. Quel figlio però, proprio non ne voleva sentire: tutto avrebbe accettato pur di non salire mai e poi mai sulle due ruote. Anche la scherma. Nel frattempo gli anni passano, e invece di disegnare traiettorie con il pallone in mezzo ad un prato verde, passa a parlarne, e sopratutto, scriverne. Il punto di svolta però, arriva con uno scambio equo: da una parte un padre ciclista "costretto" a seguire le gare podistiche del suo pargolo (passi il giornalismo, ma bisogna pur sempre muoversi), dall'altra un figlio podista "costretto" a seguire le gare amatoriali di un padre ciclista. Ed è proprio a queste gare che sboccia l'amore. Un amore che porta il nome di Vincenzo Nibali.

Uno sport "vero"

In un'epoca calcistica dove si tende a celebrare qualsiasi cosa vada al di fuori dell'ordinario (come il salto di Cristiano Ronaldo contro la Sampdoria), e dove il vero movente di ogni cosa non è più la passione, ma il dio denaro, urge il ritorno a uno sport vero, fatto di fatiche, sacrifici e conquiste. E in questo, uno dei pochi sport in grado di poter portare ancora questi valori sul piatto è il ciclismo.
A far innamorare quel ragazzo al mondo delle due ruote, non è stata infatti tanto la bicicletta nel suo senso stretto, ma la fatica che ne deriva da quelle pedalate, da quelle tappe interminabili, programmate una dopo l'altra, senza (o con il minimo indispensabile) riposo; allenamenti estenuanti e via dicendo. Tutti elementi che il mondo del pallone, con il passare degli anni si è perso per strada.

Vincenzo Nibali e Richard Carapaz

Dicono che nello sport, la rivalità sia qualcosa di essenziale. Niente di più vero. Nel lontano decennio che va dagli anni 40' alla fine degli anni 50', a fare le fortune del ciclismo su scala mondiale fu la famosissima rivalità tra Fausto Coppi e Gino Bartali: un confronto talmente grande, che sfociò anche nella politica; Fausto dalla parte dei comunisti, Gino da quella dei democristiani. Insomma, un vero e proprio spettacolo in grado di far appassionare al mondo del ciclismo, anche i più neofiti, tipo il sottoscritto. A differenza di tantissimi anni, forse anche troppi, gli appassionati delle due ruote sono tornati a vivere qualcosa di simile con il duo "Nibali-Carapaz", protagonisti di una delle più belle edizioni del Giro d'Italia che la storia ciclistica degli ultimi anni possa ricordare. Ma non solo: a loro due si deve questo improvviso infatuamento per questo sport. Non me ne vogliano i ciclisti più esperti, ma per uno cresciuto a pane e pallone, ammirare l'ecuadoriano Carapaz vincere a Courmayer mentre Nibali e Roglic si "marcavano" (lo so, scusate, questo è un termine calcistico) a vicenda è stato letteralmente uno spettacolo.

La consapevolezza

Un emzione appunto, che nel calcio è stata impossibile da ritrovare, nemmeno nella scorsa finale di Champions League, quella tra Liverpool e Manchester City, il match più importante di ogni stagione calcistica, una finale seconda solo a quella della Coppa del mondo. Ed è stato proprio quando il capitano del Liverpool, Jordan Henderson ha alzato al cielo quel trofeo tanto ambito, che quel tarlo ha preso pieno possesso: il calcio è uno sport magnifico, che sa regalare emozioni, perchè esultare per un goal della propria squadra, che sia per una finale di Champions League, o per una partita amichevole, è sempre una festa, ma oggi come oggi manca qualcosa.

Manca il contatto umano verso giocatori che giorno dopo giorno sono visti sempre più come delle superstar inarrivabili, facendoci dimenticare che sono prima di tutto uomini come noi, manca il rispetto per l'avversario, insomma, mancano i veri valori dello sport. Valori che nel ciclismo, fortunatamente, c'è chi ancora tramanda con passione e sacrificio.
E allora, quel ragazzo, può ritenersi davvero fortunato ad aver scoperto qualcosa di cosi bello e genuino.