Ieri sera sono stato piacevolmente sorpreso dalla risposta del direttore Stefano Agresti all’articolo con cui il sottoscritto replicava al suo editoriale sul fallimento di Pallotta da presidente della Roma.
Colgo dunque l’occasione non solo per ringraziare ancora Calciomercato.com e il direttore, ma anche per accogliere l’invito a dire nuovamente la mia.
Come ho scritto ieri sotto alla risposta del direttore, avevo iniziato a rispondere con un commento, e solo quando mi sono reso conto di star scrivendo da più di dieci minuti ho realizzato quanto fosse prezioso lo spunto fornitomi per “sprecarlo” in quel modo. Ho deciso quindi di dormirci su, rileggere tutto ed elaborare qualcosa di più ragionato di un commento a caldo. Eccomi qui, dunque, a proseguire questo interessante dialogo virtuale attraverso cui posso esprimermi su un argomento che mi sta letteralmente a cuore, dal momento che si parla di Roma, della Roma e di cosa voglia dire essere romani e romanisti.

Nella risposta di ieri, il direttore ha tenuto a precisare cosa intendesse nel passaggio del suo editoriale in cui parlava della mancanza di rispetto che James Pallotta avrebbe dimostrato alla squadra e alla città, tenendosene lontano. Nel mio articolo, infatti, avevo ammesso di non aver capito appieno la natura della contestazione. Non mi era chiara, in particolare, la correlazione tra rispetto e vicinanza fisica a Roma e alla Roma. In tal senso, il direttore scrive: “Il calcio, come lei stesso (cioè io) sottolinea, è anche amore, passione, partecipazione. Ebbene, come può calarsi in questa realtà un imprenditore che vive a migliaia di chilometri di distanza e non respira mai l'atmosfera della società, dello spogliatoio, dello stadio, delle strade? Non a caso Zhang ha messo il figlio alla guida dell'Inter e lo stesso intende fare Friedkin proprio con la Roma. A suo avviso se nessun Agnelli si fosse visto a Torino per sedici mesi, la Juve avrebbe ottenuto gli stessi risultati?” Ebbene, al direttore vorrei rispondere con tre ordini di motivi per cui la lontananza fisica del presidente non possa essere un ostacolo alle ambizioni del club.

In primo luogo, a mio modo di vedere, la lontananza di un presidente dalla sua società non è sinonimo di mancanza di rispetto. Come ho già scritto, io non amo James Pallotta, ma ciò non può impedirmi di guardare alla realtà dei fatti. Pallotta non è soltanto il proprietario e il presidente della Roma. E’ un uomo d’affari con molteplici interessi e ancora più soci, cui deve rispondere in prima persona. Non è un mistero, per esempio, che nelle ultime settimane siano stati proprio i suoi soci a insistere perché concludesse la cessione della Roma a Dan Friedkin. Trattandosi di uomini d’affari statunitensi, non è assurdo pensare che la presenza di Pallotta fosse richiesta con maggiore continuità oltreoceano.
Torniamo quindi alla domanda che ponevo nella mia prima risposta: “Ma Tom Werner, il proprietario americano del Liverpool, quante volte all’anno va ad Anfield?”. Mi piacerebbe molto sentire le risposte dei tifosi del Liverpool. Così come mi piacerebbe sapere cosa pensino a riguardo i tifosi dei tanti club europei con proprietari/presidenti stranieri fisicamente lontani (dagli sceicchi agli statunitensi come Pallotta) o addirittura difficilmente individuabili (dalle cordate asiatiche alle multinazionali).

Ho scelto il Liverpool per ovvi motivi, ma di esempi da fare ce ne sarebbero tantissimi. Ne faccio un altro che, secondo me, è molto esemplificativo del calcio di oggi e di domani. Il RasenBallsport Lipsia è una squadra tedesca creata praticamente dal nulla, da una multinazionale austriaca che ha intravisto nel calcio la possibilità di espandersi ulteriormente a livello globale. E die Roten Bullen (i tori rossi) sono solamente una di quelle che potremmo definire “filiali” calcistiche dell’azienda. Il Lipsia sarà anche la squadra più odiata in Germania, ma dubito che chi ha scelto di tifare un club senza storia se ne curi molto, ora che la squadra è al comando della Bundesliga e agli ottavi di Champions League. Da anni, ormai, il calcio è terra di conquista da parte di chiunque abbia interessi economici di alto profilo. L’unica differenza la fa il successo sportivo. Chi alza trofei regolarmente, se ne infischia di chi sia e dove viva il presidente del club. Chi sta a guardare, oltre all’arbitro, alla sfiga o al complotto, si attacca pure al presidente lontano. Inutile precisare di quale schieramento faccia parte la maggioranza dei romanisti, sottoscritto compreso.

In secondo luogo, e questo è un dato oggettivo, nello staff di Pallotta figurano non solo italiani, ma romani e romanisti. E’ il caso, per esempio, del direttore generale Mauro Baldissoni, talmente legato a Pallotta da essere destinato a lasciare il club dopo l’approvazione del progetto stadio e il passaggio alla nuova proprietà. Non solo. In quasi otto anni di presidenza, Pallotta ha dotato la Roma di strutture come il media center, in cui lavorano, fianco a fianco, professionisti del settore di fede romanista e più o meno illustri ex calciatori giallorossi. Non ci sono solo Roma Tv e i canali social, ma anche una radio, chiaro indizio di come la società abbia capito perfettamente dove si trovi e con chi abbia a che fare. Chi conosce l’ambiente romano, sa quanto contino le tante radio private che affollano l’etere locale. L’operazione Roma Radio è un tentativo di contrastare lo strapotere di un paio di queste con un canale ufficiale. Per quanto Pallotta possa essere lontano, dunque, a Roma ha uomini di fiducia che conoscono bene la squadra, la città e l’ambiente. La Roma non è un club abbandonato a sé stesso da una proprietario disinteressato. Per fare un parallelismo, chi ha visto la splendida serie Sunderland ‘till I die può capire cosa intendo. Per tutti gli altri, basta aprire la voce Wikipedia dei Black Cats per farsi un’idea.

Infine, mi preme ricordare che Pallotta, a Roma, in questi otto anni è venuto più di una volta. Ciò non significa che sia stato un presidente presente, né tantomeno un buon presidente, ma pongo al mio pubblico immaginario una domanda retorica. C’è davvero bisogno di vivere a Roma per comprendere quanto importante sia la Roma per la parte giallorossa della città? Roma è una città dove si respira letteralmente calcio. Ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, trecentosessantacinque giorni all’anno. E basta davvero pochissimo per rendersene conto. Basta salire su un taxi, entrare in uno dei pochi negozi storici che ancora resiste all’invasione di tutto ciò che è fast, dal food al fashion. Dovunque ci si giri, ci si ritroverà circondati di giallorosso. Dalla vernice spray sui muri ai calendari, da una sciarpa o una maglia appesa dietro la cassa di una trattoria alle cuffiette ficcate nelle orecchie del sottoscritto, perennemente sintonizzate su una delle radio di cui sopra, per saziare un’insaziabile fame di Roma, in tutta in sensi. A Roma, semplicemente, si vive di calcio. E Pallotta non può non averlo avvertito. Non può non averlo avvertito tutte le volte che ha messo piede all’Olimpico. Non può non averlo avvertito la notte indimenticabile della semifinale contro il Barcellona, mentre, attorniato da una folla impazzita di gioia, si tuffava nella fontana di Piazza del Popolo. Poco importa che non parli (o non voglia parlare) una parola di italiano. Quella sera Pallotta ha vissuto Roma e la Roma all’apice della sua follia calcistica. In quei momenti, nessuno dei presenti gli ha rinfacciato la lontananza, l’addio al calcio di Totti o le “stecche” di Sabatini. In quel momento c’era solo da festeggiare, da godersi fino all’ultimo momento quel sogno a occhi aperti, sospesi in una dimensione che non esiste, dove perfino il romanista più elegante e fedele poteva invitare James Pallotta a offrirgli le prestazioni sessuali di qualche signorina.

A Roma, il calcio è “amore, passione e partecipazione” come in poche altre città al mondo. Se James Pallotta non l’ha capito in quei minuti di follia cui così naturalmente s’è prestato, non l’avrebbe capito in due, tre vite trascorse all’ombra del Colosseo. Io, però, sono sicuro che Pallotta l’abbia capito eccome. Ma sono anche sicuro che, su tutto ciò, abbia prevalso l’interesse economico. Quello che lo ha spinto a comprare un club praticamente fallito e risanarlo, espanderlo, tentare di dotarlo di uno stadio di proprietà. Anche a costo di ignorare il lato sportivo, inteso come trofei da alzare al cielo, accontentandosi (si fa per dire) dei piazzamenti in zona Champions. Un atteggiamento fuori dalla concezione di qualsiasi tifoso, ma perfettamente legittimo in un’ottica imprenditoriale. Così come è legittimo, tuttavia, chiedersi cosa sarebbe successo se la Roma, quel maledetto 26 maggio, avesse vinto la Coppa Italia. Non lo sapremo mai, ma io credo che tante cose sarebbero andate diversamente. Forse, anche l’epilogo del rapporto tra Pallotta e Roma. Non c’è controprova, ma credo che anche solo un trofeo vinto in un certo modo avrebbe cambiato per sempre la percezione di un uomo che ci aveva promesso la grandezza, ma che, alla fine, ci ha traditi per 170 milioni. Quelli che intascherà quando, finalmente, ci libererà della sua presenza e di qualcuno dei nostri fantasmi.