Avete presente le prigioni? Quei muri scrostati, più pesanti di quanto non sembrerebbero. E quello spicchio di luce, lo vedete? Si infiltra tra le grate e poi ripiomba a terra, a formare un’oasi chiara: corre spesso dritta, qua e là si inserisce nelle crepe del pavimento. Sentite la speranza gonfiarsi? Avete visto la luce. Vedete che ora si frantuma? Ecco le grate.

Grossomodo sono due le opzioni per un prigioniero che non voglia esserlo: alcuni provano a sbriciolarsi le nocche contro la grata, altri, invece, lasciano che la prigionia li scivoli addosso e ne aspettano la fine quasi fosse per loro un pellegrinaggio.

Possono essere di vario tipo, sapete? Le prigioni intendo. Wikipedia, ad esempio, riassume che “La claustrofobia (dal latino claustrum, "luogo chiuso" e dal greco φόβος, phobos, "fobia") è la paura dei luoghi chiusi e ristretti come camerini, ascensori, sotterranei, metropolitane e di tutti i luoghi angusti in cui il soggetto si ritiene accerchiato e privo di libertà spaziale attorno a sé”. Una prigione mentale direi. 

Che dire della tattica calcistica invece? Certo, il paragone con la prigione suona esagerato. Però, ecco, sapete quando diventa stringente perché troppo puntigliosa? Avete in mente azioni fotocopia di squadre diverse che seguono lo stesso credo tattico? Lì voglio arrivare. 

Ma non voglio scrivere di prigioni, ne ho già detto abbastanza, forse troppo. I prigionieri invece, loro, sono quello che mi interessa. Il modo in cui reagiscono alla prigionia, chi rompe tutto e chi sopporta.

Nel primo filone collocherei, per intenderci, Zlatan Ibrahimovic.
No, non perché sembra appena uscito da una galera vera, ma per come si collocava in campo: il fulcro del gioco, che tutto a se attraeva, l’atteggiamento di chi le avrebbe abbattute le grate. In tanti anni di Ibra in Serie A ( e non solo) si possono contare forse più sfuriate contro i compagni di squadra (vedasi la sezione “dovevi passarla a Zlatan, perché non gliel’hai passata e, ancora, dovevi passarla a Zlatan”) che gol segnati: non male per uno che ne vanta 122 nella massima serie italiana. Un giocatore che in un certo senso rompeva lo schema tattico della sua squadra per issarsene in vetta come stella polare. Lo stesso che, ai tempi della sua militanza nell’Inter, replicò a un intervistatore “devo essere egoista, se non lo fossi sarei un giocatore semplice, io non mi vedo un giocatore semplice” con la sicurezza di chi può permettersi, in campo (e forse anche fuori), di fare quello che gli pare. Ecco perché, secondo me, nella sua bacheca c’e un vuoto sotto la targhetta “Uefa Champions League”: forse fin troppo accentratore lo svedese, anche ai massimi livelli della competizione europea per eccellenza, dove solitamente prevale il gruppo. Quando mai lo rivedremo un giocatore così? Ne nasceranno di più forti? Probabile. Rivivremo mai un giocatore capace di rompere eventuali “prigioni tattiche” con la violenza del suo eclettismo? Difficile. 

Veniamo poi al secondo, e ultimo, tipo di prigioniero: quello che sopporta, che vive nella prigione come se questa non esistesse. Sul campo da gioco, per me, Mesut Özil.
La voglia di cercare qualcosa che non c’è forse, o magari un caso: la rivista d’arte internazionale con sede a Londra, Frieze, ha però scelto di pubblicare sul proprio sito un articolo, datato 23 settembre 2018, sul centrocampista tedesco, più precisamente “Minimalism, Masculinity and Mesut Özil”. Nell’articolo Jörg Heiser, impegnato come direttore all’Università delle Arti a Berlino, scrive che il dondolarsi in campo del trequartista dell’Arsenal, unito a passaggi illuminanti replicati con tale semplicità (e svogliatezza, aggiungo io) da rendere difficile individuarne la luce, si collocano nella genesi di uno stile di gioco per cui “il minimalismo è la reale provocazione”. 

Özil ha una risposta opposta rispetto a quella di Ibrahimovic: se lo svedese rompe le costrizioni, anzi le deforma, sotto il proprio peso, il tedesco vive in una gabbia, mentale o tattica che sia, provocandola dall’interno, irridendola nella semplicità. Si sposta tra luce ed ombra al passo delle sue spalle cadenti, quelle che, ogni tanto, dondolano sul prato dell’Emirates. 

 

E voi che ne pensate?