Dopo aver trascorso 6 mesi in Spagna in Erasmus, sabato, vedrò di nuovo una partita accanto al mio papà. Una partita della mia Roma, anzi, della NOSTRA Roma. La partita non ha alcuna importanza, è un banalissimo Roma-Siviglia amichevole. La valenza sportiva è infima se non nulla, eppure sono emozionato.
Pensare che il nostro rituale, quel frammento di tempo che dura 90 minuti, dove si dimentica tutto e tutti stia tornando, mi riempie il cuore. Non sarà una partita competitiva ma per me è già tanto. Mi era mancato l’annunciarsi la formazione vicendevolmente, la ricerca del canale giusto e il posizionarsi sul divano. Il suono secco e irregolare di quelle maledette unghie che non dovremmo mangiarci ma alle quali proprio non sappiamo resistere e alla fine ci si ritrova sempre con i polpastrelli consumati. Mi mancava l’esagerato sconforto che ci assale dopo il primo passaggio sbagliato, quell’innato pessimismo del tifoso che può essere colmato soltanto dal fragore che provoca un goal. La dinamica di un goal è sempre la stessa, da anni. Non si cambia di una virgola: Quando l’azione diventa offensiva la postura si incurva in avanti e ci si sporge guadagnando centimetri del divano, i muscoli si tendono come se dovessimo partecipare fisicamente all’azione, l’ansia si accumula fino al momento del tiro e lì ci si ritrova ad un bivio…se la palla non entra ci si ricompone sconfortati con la testa reclinata sui cuscinoni del divano, ma se entra…beh, lì non c’è più nulla di premeditato o razionale!
L’urlo che esce nasce direttamente nel cuore e usa la gola come valvola di sfogo per poter uscire, nell’abbraccio successivo all’urlo si rilascia tutta la tensione e si dà spazio all’adrenalina provocata dalla sensazione più bella del mondo:
Un goal della Roma. Quel momento lì è diverso da ogni altra cosa. Un momento del genere lo può capire solamente chi condivide una passione, anzi, un amore.
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