Ero poco più che un bambino, quando t’ho visto con la fascia al braccio combattere e vincere tutto con la maglia che amo.
Leader carismatico, infaticabile trascinatore. Capitano.
Poi t’ho visto tornare. Da saggio, con più esperienza e più acume, sul trono dell’Itaca bianconera. Ed è stato amore, è stata gloria. Ancora una volta.
Ma si sa, in un ambiente cosi cinico e poco avvezzo ai sentimenti, una fiaba talmente straordinaria difficilmente avrebbe potuto durare. Lo strappo è arrivato, puntuale. E ha fatto male.
Via da Vinovo all’improvviso, un fulmine a ciel sereno. Era luglio, io ho sentito freddo; un freddo che mi smarriva. La tempesta di un attimo, l’astio, una malcelata acredine per questioni poi nemmeno vitali. Screzi e scaramucce: il guerriero abbandona la sua dama, lasciandola in preda a nemici e detrattori. Proci.
E’ una ferita ancora aperta, che la parentesi azzurra di Francia non è bastata a curare.
Perché tu, Antonio Conte, sei stato molto più che un semplice allenatore. Per chi ama la Juventus, hai rappresentato molto di più. Un simbolo, una leggenda; la tradizione e la rinascita, il mentore salvifico. Il Re che tornò a guidare il suo popolo verso la nuova età dell’oro.
Ecco perché ho detestato, lunedì scorso, vederti gioire e abbracciare tifosi di altri colori.
Può sembrare un capriccio banale e privo di senso, l’immatura reazione di un romantico. Non è così. Perchè in barba alle leggi asettiche del professionismo, più forti di quelle di bilancio e carriera, si ergono altre ragioni: quelle del cuore.
Ed è proprio li, in fondo al mio cuore, che celo ancora la segreta soddisfazione per ogni tuo successo, anche ora che sei lontano. Ed è sempre lì, mister, che cullo la speranza di rivederti, un giorno, tornare a casa. Come nelle fiabe più belle.
Prima che ciò accada, però, continuerò a nascondere nostalgia e recondite fantasticherie dietro una maschera: la stessa che vedrai sul campo di battaglia, se il destino dovesse giocarci lo scherzo di volerci nemici.
La Juventus prima di tutto.
Luigi Albiniano
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