Quali ricordi resteranno nei nostri cuori e nella nostra memoria del 2021?
Certo è stato un anno difficile, come difficilissimo si è dimostrato il 2020, l’anno dello scoppio della pandemia, l’anno delle strade vuote, dell’isolamento, della paura e, per troppi, l’anno della morte. Pian piano, tenendo salda la barra della coscienza, usando la tenacia e cercando di non cadere nella disperazione, abbiamo riconquistato, grazie ai vaccini ed a una coscienza solidale, la fiducia nel futuro, la speranza di ritornare alla vita normale, anche se, a veder bene in questi ultimi giorni, tra gli aumenti delle bollette e le code in farmacia per i tamponi, nulla sembra andare come si vorrebbe. Certo nella mente rimarranno i dolori, le immagini della tristezza e i ricordi di tanti dolori e di sacrifici anche economici, ma nell’almanacco delle sorprese di quest’anno strano resteranno incise molte emozioni sportive, molte soddisfazioni riflesse e vissute attraverso gli schermi televisivi e, forse su tutte come rito collettivo, la inaspettata vittoria della nostra Nazionale di Calcio ai Campionati Europei.

Il confronto del mondo dorato del “sistema calcio”, quasi asettico, con la vita normale e durissima di tutti i giorni è, lo capisco, un po’ azzardato ma, lasciatemelo dire, questa vittoria ha regalato alla Nazione, alle nostre coscienze ed ai nostri cuori, almeno per qualche attimo, una gioia che resterà indelebile nel tempo.
Magari tra i lettori qualcuno, la notte dell’undici luglio, ha sbuffato di rabbia ascoltando le urla della gente ed il trombettar di clacson, mentre altri raggiungevano il centro per esultare felici di una vittoria insperata. Non mi permetto di giudicare i comportamenti ma, al termine della sequenza di quei dannati e meravigliosi rigori, io so cosa ho provato.
Ancora una volta lo sport è riuscito a catalizzare l’interesse di tutta la nazione, infiammando i cuori di chi segue con passione il calcio e di chi proprio non riesce a sopportarlo, ma nella vittoria sente il gusto di una certa rivalsa, anche politica, culturale, sociale. Sappiamo, come popolo, di meritarlo anche se troppo spesso nascondiamo la polvere sotto il tappeto e ci facciamo orgogliosi della bellezza del nostro paese evitando di mettere a fuoco i mille problemi che lo attanagliano.

Nulla più della fortuna, o della buona sorte, sembra mandare avanti le nostre vite, fare crescere i nostri amori, le nostre ambizioni, realizzare i nostri progetti. Pensiamo sempre, di fronte a un fallimento, a una contrarietà, di essere stati solo sfortunati, e nei momenti del successo, spesso, ringraziamo più il fato che noi stessi. Bene, la Nazionale Italiana, nel suo percorso durante il torneo più importante d’Europa, ha dimostrato che il lavoro, l’umiltà, la determinazione, l’impegno e la perseveranza, hanno la dote di richiamare anche la buona sorte, danno sicurezza e fortuna a chi accetta di combattere con coraggio e spirito di gruppo.
Mai così povera di talenti sopraffini, mai così priva di stelle calcistiche, di nomi altisonanti, di bambini dotatissimi ma viziati, questa Nazionale Italiana si è presentata quasi in sordina al torneo. Tre anni fa aveva subito l’onta di non partecipare ai mondiali, trascinata nel fango da una serie imperdonabile di errori umani e tecnici che l’avevano fatta precipitare in una crisi profonda. Fortunatamente, lasciati alle spalle i rimorsi e gli attriti personali, alla guida di questa formazione, che ricordiamo rappresenta l’orgoglio Nazionale nel Mondo, è arrivato Roberto Mancini. Forte delle esperienze con alcune squadre di club e vincitore di campionati ad ogni latitudine del globo terracqueo, il cinquantaseienne marchigiano ha preso possesso della panchina azzurra, con il piglio giusto. Pian piano la squadra è stata ricostruita con una serie importante di vittorie prima dell’appuntamento di quest’anno. Serie di vittorie che, secondo i critici, era dovuta alla scarsità degli avversari incontrati.
Intanto il gruppo si stava cementando. Parlo di gruppo perché è importante, ora a bocce ferme e medaglia in tasca, dare il merito della vittoria non a un singolo giocatore ma a tutta la squadra, anche se la personalità di ogni calciatore è emersa con chiarezza nel corso del torneo.
Certo, per due volte la lotteria dei rigori si è mostrata decisiva, per due volte, possiamo senz’altro dirlo, abbiamo avuto molta fortuna, per non usare altri termini, ma nulla lasciava presagire il contrario, perché sul campo, la squadra italiana ha sempre dimostrato (tranne qualche minuto di sbandamento) di essere forte, tenace, combattiva e soprattutto in grado di dominare il gioco.
Per questo ci siamo appassionati alle partite, per questo il segnale che arrivava dal prato, con quei ragazzi illuminati dai riflettori e sporchi di fango che ci mettevano l’anima scontrandosi con giganti di ogni etnia e quel pallone che correva cadendo sempre nella porta giusta, ci rendeva orgogliosi, ci ha reso orgogliosi.

L’apoteosi è stata la finale con gli Inglesi, che ci consideravano carne da macello (come considerano inetti i giocatori, i politici, gli Italiani in generale) e si sono ritrovati decisamente con le pive nel sacco, incapaci di accettare la sconfitta e di ammettere la superiorità avversaria. Quella sera, sembra un’eternità ma sono passati pochi mesi, è stata una sorta di liberazione collettiva, un modo, magari incosciente e poco raccomandabile, di scacciare la tristezza accumulata in un anno e mezzo di dolore e solitudine. Come condannare gli abbracci dei ragazzi, dei giovani (che tra l’altro corrono a farsi vaccinare più dei sessantenni) dopo le ore passate in casa al computer a studiare, a parlare con gli amici, a cercare una socialità impossibile, a perdere tempo prezioso per affrontare la vita? Come condannare chi gioiva quella notte, anche con il senso della rivalsa quando sappiamo che molte famiglie hanno ancora vivo il ricordo terribile della guerra e di qualche parente ucciso o finito prigioniero in mano anglosassone durante la Campagna d’Africa dal 1940 al ‘43?
Certo, la soddisfazione del Presidente Mattarella deve essere stata enorme. Essere a Londra, nella capitale dell’Impero accanto alla famiglia reale; girarsi e non vederli più, svaniti nella loro supponenza, nell’incapacità dell’accettare una sconfitta, deve essere stato bellissimo.
Le manone di Donnarumma, la grinta di Chiellini e Bonucci (“devono mangiarne ancora di pastasciutta!” urlavano), l’abilità tattica di Verratti e Jorginho (che è brasiliano ma ha il cuore tricolore), i colpi di genio di Chiesa e Insigne, la tenacia di Barella e degli altri centrocampisti e lo spirito di sacrificio di Immobile e Belotti (quest’ultimo distrutto dagli effetti del virus ma tenace nel portare avanti la carretta) hanno portato in alto l’onore dell’Italia. Con grande umiltà il gruppo ha voluto che per primo salisse sul podio a ricevere la medaglia d’oro l’infortunato Spinazzola, ed è stata una sorpresa commovente in una notte da ricordare. Lui con la stampella, coccolato dagli altri, come un novello Enrico Toti.

Fra un mesetto gli eroi di Wembley torneranno a giocare nei loro club, molti torneranno ad essere ragazzini viziati, troppo pagati e schiacciati dai loro procuratori. Molti forse resteranno relegati in panchina per dare spazio e valore economico a ignoti sconosciuti comprati a pochi soldi dalle avarissime società.
Queste le assurdità del calcio. Queste quelle della vita.
Ma noi sappiamo bene cosa resterà nei nostri cuori di quest’anno amaro.
Sappiamo bene che la spettacolare notte di Wembley è stata solo la prima di una serie di attimi emozionanti regalati dallo sport italiano che, come in una sorta di contrappasso dantesco, ha ribaltato la malasorte ed ha vinto tanto, tantissimo nella seconda parte dell’anno. Certo, da sportivi amanti del divano, o al massimo delle scampagnate, delle corsette nel parco e delle biciclettate sulle strade in provincia avvolti in improbabili tutine, abbiamo vissuto le Olimpiadi, le Paraolimpiadi ed i vari eventi internazionali dello sport in casa, osservando le imprese dei nostri atleti in TV. Ma le abbiamo vissute con emozione e splendide sensazioni, sinceramente mai provate prima. Abbiamo (non è mai successo) l’uomo più veloce del mondo sui cento metri. È un poliziotto bresciano, che fa Jacobs di cognome, Marcel di nome ed ha muscoli tatuati e sprizzanti. In una notte a Tokyo ha stravolto la storia, vincendo la medaglia d’oro giusto qualche minuto dopo la vittoria dell’uomo che salta più in alto di tutti, tal Gianmarco Tamberi. Ma le medaglie, nelle notti (pomeriggi da noi) olimpiche, sono state moltissime e sempre frutto di duro lavoro ed enorme dedizione. Come tante sono state le soddisfazioni, e le lacrime di emozione, regalate dalle imprese delle atlete e degli atleti delle Paraolimpiadi. E che dire del pomeriggio di Colbrelli, e delle cronometro di Ganna? E i ragazzi della pallacanestro, i nuotatori e la splendida  Federica Pellegrini che ha lasciato le gare vincendo ancora?
Oddio, adesso cado nella retorica, nell’esaltazione dei valori sportivi e della tenacia umana. Ma di questo, credo, non dobbiamo vergognarci. Certo. Amiamo tutti immedesimarci nelle imprese dei grandi sportivi e che possiamo dire del batticuore che ci hanno regalato i campioni del ciclismo, le ragazze della pallavolo, le farfalle della ginnastica artistica? L’Italia, forse per la prima volta dopo tanto tempo, è ritornata protagonista sulla scena internazionale grazie allo Sport, con la esse maiuscola. Che tutto sia successo l’anno seguente alla vera disgrazia, alla pandemia tremenda e sotterranea, è stato un segnale importante, che ci ha regalato qualche attimo di gioia e qualche sorriso compiaciuto. Speriamo che l’esempio dei nostri sportivi e degli eroi silenziosi che ogni giorno aiutano gli altri negli ospedali, sulle strade e nei vicoli dimenticati delle periferie possano indicare la strada ai nostri giovani, alle ragazze ed ai ragazzi che sono il nostro futuro. I riferimenti non mancano.
Sapranno donarci, ne sono certo, piccole soddisfazioni, grandissimi risultati e tanta, tanta speranza di un futuro umile e vincente. Sempre che questo paese sia governato con saggezza, onestà, umiltà e senso del sacrificio e del dovere.

Claudio Calzoni