I risultati internazionali dei club e della nazionale rappresentano da sempre il punto di partenza e di arrivo fondamentali per analizzare criticamente lo “stato di salute” del movimento calcistico italiano. Un esempio lampante può essere ricondotto al 2003, quando Juventus, Milan e Inter giunsero alle semifinali di Champions League, per quella che poi divenne una finale tutta italiana vinta ai rigori dai rossoneri guidati da Carlo Ancelotti ai danni della compagine bianconera.
Tre anni dopo, nell’estate del 2006, in un momento di inattesa difficoltà causata dallo scandalo Calciopoli, l’Italia diventava per la quarta volta campione del mondo sotto la guida di Marcello Lippi, commissario tecnico che appena tre anni prima perse da allenatore della Juventus la finale appena richiamata. I nostri colori nazionali potevano vantare un’egemonia indiscutibile, che però appare lontanissima dalla situazione attuale. La nazionale, infatti, sarà costretta ad aggrapparsi ai play-off per tentare staccare il biglietto di partecipazione al mondiale russo, mentre risulta quantomeno imbarazzante il confronto tra i nostri club e quelli europei, ad eccezione della Juventus che, grazie ad una società con un progetto lungimirante e una guida tecnica che ha saputo creare un gruppo di indiscutibile qualità, è riuscita a mantenersi a livello delle big europee centrando, per due volte in tre anni, la finale della massima competizione europea, poi entrambe perse. In questo quadro, il recupero della competitività internazionale diventa un tema di estrema importanza; appare logico, in tale prospettiva, suddividere l’analisi tra club e rappresentative nazionali.

Appare riduttivo immaginare che la mancanza di concorrenza in ambito europeo dei nostri club sia riconducibile ad una o poche cause, bensì tale tendenza è generata da un insieme di variabili a carattere sistemico. Le prime considerazioni vanno collegate a cambiamenti avvenuti nel contesto di riferimento: l’introduzione del financial fair play in una situazione di crisi economica globale. Le società calcistiche nostrane, infatti, storicamente venivano gestite da Presidenti che, per il raggiungimento del risultato sportivo in tempi brevissimi, compivano grossissimi investimenti nell’acquisto di calciatori, senza però innescare un processo di crescita e di sviluppo del club finalizzato all’aumento dei ricavi e della redditività. Tali società, essenzialmente, realizzavano enormi perdite economiche ed era evidente come non fossero imprese sostenibili in modo autonomo, ma necessitassero del continuo sforzo economico del proprietario, creando situazioni irrimediabili nel momento nel quale tale sostegno fosse venuto meno. In questo la crisi economica ha avuto un ruolo non marginale, con molti storici proprietari che non potevano più investire come in passato: si pensi a Moratti nell’Inter o, da ultimo, Berlusconi nel Milan. In questo quadro è stato inserito il financial fair play: ridare sostenibilità economica al calcio, limitando le perdite consentite delle società, obbiettivi da raggiungere attraverso politiche di aumento dei ricavi e contenimento dei costi.

I club italiani hanno già da qualche tempo cominciato ad attuare politiche finalizzate all’aumento dei ricavi, che sono anni luce lontani dai livelli raggiunti da squadre come Real Madrid, Barcellona e Manchester United e troppo legati a condizioni estemporanee, come i ricavi derivanti dai risultati sportivi e dalle plusvalenze realizzate attraverso la vendita dei giocatori. Questo rappresenta un punto di fondamentale importanza, dal momento che ad un fatturato maggiore corrisponde anche una possibilità di investimento nei calciatori più elevata e, di conseguenza, un aumento considerevole della possibilità di raggiungere il risultato sportivo; quest’ultimo, inquadrabile ad esempio come la continua partecipazione alla Champions League, alimenta ancora di più i ricavi continuando ad innescare questo circolo virtuoso.
Di conseguenza, l’unico modo per recuperare competitività per i club è quello di cercare di ridurre il gap esistente sotto questo profilo, ma ciò presuppone politiche strategiche che interessino un elevato numero di variabili. In primis, la valorizzazione del brand a livello globale, cercando di attaccare mercati potenzialmente illimitati come quello asiatico, col fine di aumentare la fan base attraverso l’utilizzo dei new media: continua presenza sui social, utilizzo di app e creazione di contenuti innovativi sono solo alcuni esempi di tecniche per cercare di avvicinare le singole società ad ogni tifoso nel mondo. Questo, nel medio termine, dovrebbe generare un ritorno in termini di Merchandising e di ricavi da sponsorizzazioni, direttamente ricollegabili alla presenza, tramite il brand, della società nei vari mercati.
Certamente importanti sono, poi, l’ammodernamento e la costruzione di impianti sportivi innovativi, tecnologici e che permettano al tifoso di vivere un’esperienza a 360 gradi e non collegata unicamente all’evento sportivo in sé: in questo caso, ad esempio, il Super Bowl ha fatto scuola. Infine, risulta fondamentale la valorizzazione dei giovani, attraverso un più costante impegno tecnico ed economico delle società all’interno dei settori giovanili, soprattutto in un contesto di aumento sfrenato dei costi d’acquisto dei calciatori, in quella che a tutti gli effetti ha le parvenze di una bolla pronta ad esplodere. Questo percorso dovrebbe aumentare la concorrenza e la competitività sia interna al campionato, sia esterna in ambito europeo, rendendo il prodotto Calcio italiano più appetibile nei mercati esteri. Il percorso così delineato è lungo e sistemico, ma rappresenta il solo modo per poter competere in un mondo in cui la forza economica è diventata sempre più rilevante.

Per quanto riguarda la Nazionale il discorso diventa più complesso. Da sempre l’Italia è patria di enorme talento calcistico riconosciuto a livello internazionale. E il futuro sembra comunque di ottimo livello osservando i giocatori in rampa di lancio come Bernardeschi, Chiesa, Cutrone, Donnarumma, Bastoni, Barella e molti altri. Impostando un discorso che esuli da considerazioni tattiche su come la Nazionale maggiore abbia affrontato le ultime e decisive partite di qualificazione al mondiale russo, la grande differenza tra nazionali come la Spagna, Francia, il Belgio e quella italiana è da ricercare nella minore esperienza internazionale dei nostri calciatori, specie di quelli giovani. Si pensi, ad esempio, a Saul, giocatore affermato in pianta stabile nell’Atletico Madrid di Simeone e mattatore nella sconfitta dell’under 21 italiana all’europeo di categoria contro i rivali spagnoli.
In aggiunta molti titolari attuali dell’Italia, ad esempio Candreva, Immobile e Insigne, non hanno mai giocato importanti partite in ambito europeo, come delle semifinali e finali di Champions; aspettarsi esperienza internazionale da parte dei giovani, di conseguenza, appare improponibile. Una delle strategie spesso richiamate per aumentare lo sviluppo e la crescita dei giovani è quella di creare le squadre B dei club, in sostituzione della categoria “Primavera”, sulla scia ad esempio delle squadre spagnole. Questo aumenterebbe da subito il grado di competitività e permetterebbe ai giovani di anticipare di qualche anno il percorso nel mondo professionistico, con importanti risvolti nella formazione personale. La strada, infatti, non deve essere quella di obbligare i club ad avere in rosa giocatori provenienti dal vivaio sulla base di norme, ma dovrebbe essere quello di alimentare lo sviluppo dei calciatori affinché diventino risorse utili alle squadre, e non dei riempimenti di rose. In questo l’Atalanta ha fatto un lavoro notevole, unendo gli investimenti nel settore giovanile alla capacità e il coraggio di Gasperini di lanciare giovani di prospettiva. Il risultato? L’Atalanta qualificata ai gironi di Europa League, Gagliardini acquistato dall’Inter e Conti dal Milan. Da ultimo, sarebbe strategico per i club creare dei centri di formazione integrati e trasversali, che abbraccino tutti i tesserati dalla prima squadra al settore giovanile: in questo modo le abilità, le conoscenze e le modalità di lavoro e apprendimento sarebbero trasferibili in modo semplice tra le varie squadre giovanili. La mitica Masia, struttura di formazione del vivaio del Barcellona, ha permesso di modellare una generazione di fuoriclasse che sono stati utili sia al club stesso, ma soprattutto alla nazionale spagnola.

Nel corso del tempo il movimento calcistico italiano non è stato lungimirante, non ha pianificato, programmato ed è stato troppo legato ad un passato che ha regalato mille soddisfazioni. Ma la strada intrapresa dai club è quella giusta, il vivaio calcistico rimane fiorente e ci sono tutte le condizioni affinché, con qualche accorgimento strategico, si possa tornare ai fasti di un tempo. E magari quella notte di Manchester nel 2003, quella di Berlino nel 2006 e quella di Madrid nel 2010 non sembreranno così lontane.