"Puoi imparare una riga dalla vittoria e un libro dalla sconfitta". Ha ragione Paul Eugene Brown. Il tempo di gloria è lontano ormai, sono passati più di undici anni da quel 9 luglio 2006, quando l'Italia si ritrovò per la quarta volta sul tetto del mondo. E' proprio vero, da quella grande vittoria ho imparato un concetto semplice ma significativo, ossia che la forza di un gruppo coeso, fiero e consapevole dell'obiettivo può arrivare ovunque, può arrivare persino a vincere. Ma ho imparato anche bene che, tutto ciò non è sufficiente  se non è supportato da un talento naturale in alcuni elementi di cui, appunto, quella nazionale abbondava. Il ricordo di quelle notti mondiali è ancora così vivo in ognuno di noi che non sto qui ad elencarvi la classe e il valore dei giocatori che rappresentavano quella nazionale (fatelo voi, tanto conoscete la formazione a memoria) né tantomeno quei momenti in cui, una loro giocata, ha deciso una vittoria.

Da quel momento in poi, il sistema calcio italiano è andato incontro ad una forte emorragia di risultati, momentaneamente interrotta dal trionfo dell'Inter nella Champions League del 2010. Mi fermo un attimo, ripenso a quella incredibile stagione per i colori nerazzurri, e si, anche questa volta le ragioni d iquel successo sono a me chiare e facilemnte riassumibili. Un grande gruppo e de igrandi giocatori. E poi? Nulla, o quasi. Questa è la prima risposta che mi viene in mente  in un contesto in cui, quello occidentale, e nello specifico quello italiano, non esiste la cultura della sconfitta, ma solo la cultura del vincitore. Ed allora, ricordare l'elenco degli insuccessi del sistema calcio italiano è pressoché automatico: fuori al primo turno ai mondiali del 2010 e del 2014, una sconfitta  sonora  nella finale dell'Europeo del 2012, due finali di Champions League perse, un ranking per club che ci vede da lungo tempo sotto a Spagna, Inghilterra e Germania.

Ma in questi undici anni di delusioni e sconfitte, mille articoli sono stati scritti e altrettanti commenti sono stati fatti alla ricerca di una soluzione alla crisi del sistema calcio italiano. Nel mio piccolo, anche io ritengo che numerosi siano gli ambiti di intervento per far riacquistare la competitività passata che sempre ci ha contraddisitinto, così tanti che forse non basterebbe un libro, perciò mi limiterò ad  indicarne alcuni. Questi ultimi dieci anni, hanno visto al vertice della piramide calcistica la Spagna ed il suo possesso palla da una parte e dal'altra la Germania, con la sua organizzazione e la crescita delle strutture  e dei settori giovanili. Anche il calcio vive di cicli, questo non ci ha visto protagonisti, non c'è stato spazio per noi, privi sia di una impronta caratteristica di gioco che di una organizzazione (minime, quasi impercettibili sono state le riforme nella gestione - Abete e nella prima gestione - Tavecchio). Abbiamo puntato troppo poco sui calciatori italiani, ma attenzione, non è un obbligo, tuttavia a mio parere è soluzione migliore rispetto a quella di riempire le rose di giocatori stranieri di valore relativamente mediocre. Si parla da anni della maggiore convenienza di certi mercati calcistici rispetto ad altri, tuttavia ritengo confortante quanto accaduto nell'ultimo anno. Infatti le società si stanno orientando (tuttavia ancora troppo lentamente) verso una maggiore italianizzazione delle proprie rose. Ben venga questa ultima tendenza, investire nel settore giovanile è una buona soluzione, soprattutto per quelle squadre che non hanno la pressione di dover vincere a tutti i costi. La mia mente va sempre al modello Atalanta. Ne sono sicuro, se non vendesse tutti gli anni due- tre giocatori cresciuti nel vivaio, nel gitro di qualche anno potrebbe stanziarsi costantemente ai piani alti della classifica. E questo mi permette di evidenziare un ulteriore aspetto su cui intervenire. La riforma dei diritti televisivi  non è sicuramente la soluzione a tutti i problemi, ma una più equa ripartizione garantirebbe sicuramente un innalzamento del livello del campionato, appunto limitando la vendita ad ogni sessione estiva dei giocatori migliori da parte delle  piccole- medie squadre, al fine di finanziare il loro mercato. Ed ancora, ritengo che molto, troppo spesso, le società (ed i loro direttor isportivi) si affidano per il completamneto della rosa a potenti procuratori. Quando la fine della sessione di calciomercato è vicina, ed alcune società non sono ancora risucite ad intervenire in tre - quattro ruoli, affidarsi ai procuratori è utile, ma allo stesso tempo  molto rischioso. Ti procurerà i giocatori, ma quelli che vuole lui. Per cu, spesso viene da chiedersi, chi è allora che fa la squadra? Mistero. Ecco, questa è solo una piccola parte dei problemi che affliggono il calcio italiano, che si appresta ora ad afforntare gli spareggi per approdare al mondiale di Russia del 2018. Lo sapevamo, il primo posto nel girone di qualificazione era pura utopia, sia perchè la Spagna è, ad oggi, nettamente più forte di noi, sia perchè l'Italia non ha mai brillato nelle fasi di qualificazione. Lo diciamo sempre, il meglio lo diamo nelle partite che contano. Quando partecipiamo ad una manifestazione ci posiziamo sempre tra le favorite (negli ultimi anni sempre outsider a dire la verità).

Sto riflettendo, di nuovo. Ma avrà davvero ragione Paul Eugene Brown? Probabilmente si. Su questi undici anni di sconfitte e sugli errori su cui le stesse si sono fondate abbiamo imparato tanto, abbiamo imparato persino più di un libro, ma per il moemento, nell'attesa di mettere a frutto questi insegnamenti, ripartiamo, per riuscire a staccare quel maledetto biglietto per la Russia, almeno da una piccola parte di quei valori che hanno dolcemente riempito quella riga scritta ed imparata nel lontano 9 luglio 2006.