Mamma diceva sempre: "Studia figlio mio, poiché la vita è difficile e solo coloro che hanno studiato ce la fanno". Invero, è difficile ricordare le parole precise che utilizzava, o il momento esatto in cui mi prendeva da parte per ricordarmi le incertezze sul futuro e la correttezza di investire sull'intelletto. Ero solo un bambino, come lo è stato chiunque ora legga queste righe, e la condizione economica non mi riguardava, tanto più che avevo pochi doveri, forse uno solo. La mattina la competizione più grande era indirizzata verso i risultati scolastici. La maestra di matematica era una donna che conosceva il suo mestiere, con un fare vagamente nostalgico dei tempi in cui l'insegnamento era rude. Il ceffone veniva avvertito da tutti come il giusto rimprovero verso i ragazzini più svolgiati. Le calcolatrici venivano fuori dal pacchetto delle brioche, ma non dovevano essere utilizzate. I calcoli venivano fatti dunque alla lavagna, o addirittura a mente, mentre le domande più impervie lasciavano spazio ad una risposta "all'orecchio" della maestra, perché l'intuito di ogni piccolo studente non fosse soppresso in una corsa al suggerimento. L'angolo acuto partiva da un grado, fino a ottantanove.  Ero certamente stimolato. E cieco. Durante l'educazione di ginnastica le moltiplicazioni e i calcoli numerici diventavano più semplici. Vi erano due canestri, ideali per una partita barbara, e libera, da vivere con grande gioia. Ricordo ancora l'odore della palestra, sembrava enorme e buia ma credevamo, all'epoca, di dominarla completamente nei suoi infiniti spazi. La maestra di matematica, proprio lei, ci aveva fatto divertire.  Lo sfogo perdurava nei pomeriggi alla scuola calcio del paese. La mamma insisteva affinché i compiti fossero fatti sempre prima, ma ciò non toglieva ottime partite, allenamenti passati ad inseguire il pallone in massa. Non era chiaro come funzionasse il fuorigioco, ma il mister era in grado di allenare, arbitrare, guardare le linee. E ci faceva giocare tanto con il pallone. E ci faceva divertire.  Tuttavia, la squadra che veniva da fuori era più forte, e perdevamo sempre con loro. Avevano tutti la divisa, e prima della partita facevano esercizi stupidi. Non capivamo il perché, ma io volevo andare a giocare con quelli più forti, come facevo al parco quando ero più piccolo contro i ragazzi più grandi. Papà ci fece fare un giro in città, c'era un tale, uno che chiamò un altro per giocare nell'altra squadra. Gli dovevano far sapere. Al ritorno a casa, ero esaltato. Il giorno dopo non era cambiato niente. Con il passare dei giorni, avevo dimenticato la stessa prospettiva di andare fuori. Però la mamma mi aveva promesso che un tizio sarebbe venuto a vedermi, per farmi andare a giocare in altre squadre. Poi, non ricordo quanti giorni passarono, avevo scoperto: il tizio era già venuto! E aveva detto alla mamma che ero bravo! Però non ce la facevo, non abbastanza. Forse era troppo presto per spostarmi. Insomma, quello non capiva niente! Ma tanto giocavo ed ero tra i più bravi della mia formazione.  Le logiche della squadra di paese erano logiche di branco: hanno un che di affascinante, poiché il ragazzo che si ritiene più bravo tende ad essere ritenuto tale anche dagli altri. Caratterialmente non ho mai esercitato un dominio sulle persone in questo senso. Avevo certamente uno spirito polemico nel rispondere coi perché agli ordini non facilmente intuibili, ma ciò non si traduceva mai in un atteggiamento presuntuoso verso gli altri. Tale lealtà non ha mai pagato.  L'allenatore andò via, gli esordienti diventavano giovanissimi, e dovevano avere un nuovo allenatore: quello ci faceva correre e basta. Sulla breccia poi. Iniziavo a sentire il fastidio di scarpe enormi, comprate larghe perché così potevo crescere e continuare ad utilizzarle. Erano blu, avevano tacchetti enormi. Pensavo servissero per non scivolare sulla breccia. Ma correvo male, sui talloni. Una discussione di troppo e me ne andai. Mi ero davvero stancato: facevo duecento gol a campionato ma c'era pure chi diceva di essere capocannoniere della squadra coi suoi miseri quattro gol.  Il calcetto è bello, e alle scuole superiori c'era un bel torneo scolastico nelle ore pomeridiane, nella palestra del liceo. Mi sembrava enorme, ma speravo di poterla dominare, mentre la classe D arrancava per vincerne almeno la metà. Il diploma fu una delusione, l'esercizio di matematica non arrivò, e la seconda prova fu un disastro. Durante tutti gli anni avevo ottenuto votazioni alte, con mia madre fiera di me. Ora venivo scavalcato da chiunque proprio alla prova finale.  Però di tanto in tanto pago per giocare. E mi sono laureato, in cerca di occupazione. Quel vecchio, coetaneo e presunto capocannoniere è riuscito, dopo anni di allenamenti, a superarmi e giocare nella squadra di città. Non è mai andato oltre la regione, e sotto sotto ci godo. Ma la mamma voleva festeggiare la mia laurea: le ho detto di no.