“Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” diceva il Piccolo Principe di Saint-Exupery. Una frase che ben si adatta alla visione calcistica del popolo italiano.

IL CUORE. Se guardiamo al nostro movimento calcistico attraverso la lente dei sentimenti è innegabile abbandonarsi a una piccola sensazione di sconforto. Il tifoso italiano vive di calcio, è uno sport che fa parte della nostra cultura, che regola spesso la quotidianità di molti e ci permette di sognare, evadendo, quando possibile, dalle difficoltà del nostro Paese. La voracità di chi vive di questo sport è stata affamata da questi lunghi anni senza successi europei e internazionali. La sensazione è quella di esserci ghettizzati in un campionato autoreferenziale, dove l’unica soddisfazione è quella di vincere qualcosa all’interno delle quattro mura di casa del nostro torneo, privandoci della dolce possibilità di rivalsa nei confronti del calcio estero. Squadre che spesso snobbano le competizioni europee applicando turnover in vista delle partite di campionato (addirittura attraverso comunicati ufficiali dei propri presidenti), oppure la nazionale che fa sempre fatica a mostrare un gioco soddisfacente e all’altezza del nostro blasone. In conclusione, non si può negare che il cuore del tifoso italiano sia sofferente e in procinto di spezzarsi.

LA RAGIONE.  Ed è qui che interviene la ragione. Guardando le cose da un punto di vista più razionale possiamo renderci conto che la situazione non è, in fondo, così tragica. È vero che dal 2010, anno del triplete dell’Inter, nessuna squadra italiana ha più vinto nulla in Europa, c’è da dire però che negli ultimi tre anni la Juventus è arrivata due volte in finale di Champions, assestandosi, ormai, tra le prime otto squadre del continente. Il Napoli, che lo scorso anno è andato a sfidare a viso aperto il Real Madrid, pratica quello che da molti è considerato uno dei migliori sistemi di gioco a livello europeo, frutto del lavoro di un allenatore italiano.

Senza poi dimenticare i successi dei nostri mister all’estero: da Conte con il Chelsea, ad Ancelotti che ha portato la decima a Madrid; dall’irripetibile impresa di Ranieri con il Leicester, a Carrera vittorioso con lo Spartak Mosca dopo sedici anni. A guardarlo così il nostro non sembrerebbe un mondo calcistico poi tanto in crisi.

Anche la Nazionale, sempre criticata, in fondo sta andando ai play off dopo essere arrivata dietro la Spagna, fatto non scontato per carità, ma che potevamo ampiamente aspettarci. Pensiamo se fossimo arrivati primi e gli iberici secondi, nel loro paese non si sarebbe consumata una tragedia calcistica, ma probabilmente sarebbero andati a playoff con la sicurezza di chi è pronto ad “asfaltare” qualsiasi avversario capiti a tiro. La stessa convinzione con la quale dovremmo andarci noi, tralasciando i giudizi e le eccessive autocritiche.

Inoltre, sempre a livello di nazionale, per quanto Ventura non abbia portato un gioco frizzante ed esplosivo, ha portato un’idea di rinnovamento, lanciando nuovi giocatori, e quando c’è un’idea, sbagliata o giusta che sia, vuol dire che c’è ancora vita su questo pianeta.

MIGLIORARSI. Ovviamente il nostro movimento necessita di un miglioramento e di un adeguamento alle modernità presenti in altri campionati. Ben vengano sperimentazioni come quelle del Var (dove noi siamo tra i primi), una diversa distribuzione dei diritti televisivi per aumentare la competizione di un campionato sempre spostato sulle stesse squadre, la diffusione degli stadi di proprietà (che lentamente sta prendendo piede) e l’introduzione delle squadre b. Soprattutto quest’ultima innovazione sembra ormai inevitabile per rafforzare i settori i giovanili, vero tallone di Achille del nostro campionato. La nascita delle seconde squadre aiuterebbe a crescere giocatori abituati a giocare con regolarità a certi livelli di competizione, e rafforzerebbe il loro attaccamento alle squadre di origine, evitando di creare legioni di giovani zingari del pallone, privi di un’identità calcistica.

Questo perché, forse, il più grande problema del nostro calcio è la mentalità, una mentalità sempre più fragile specchio anche della situazione del Paese. Gli stessi giocatori vedono sempre meno curata la loro preparazione mentale, fin da giovani trascurata; a differenza di altre nazioni si fa fatica a introdurre figure professionali come psicologi dello sport o mental coach. Basti vedere i nostri talenti, dall’indiscusse qualità tecnico-tattiche, che spesso spariscono nei momenti cruciali, come immobilizzati da una scarsa personalità.

A concludere, per migliorare il nostro movimento calcistico ci sarà bisogno che il cuore e la ragione trovino nuovamente il loro auspicabile equilibrio.