Russia 2018. Una parola da groppo allo stomaco. Per arrivare lì, aldilà delle migliaia di chilometri, aldilà delle ore di viaggio, il percorso sembra infinito, tortuoso, angosciante. Lunghissimo perché ci sono degli spareggi da giocare ottenuti anticipatamente più per meriti altrui che per meriti propri (chiedere al Belgio), tortuoso perché tra l’Italia e il pass per Russia 2018 ci sono delle nazionali di tutto rispetto: Svezia, Irlanda, Irlanda del nord e Grecia. Situazione angosciante questa perché ad affrontare questo tipo di sfide, con il blasone di ottima nazionale quale siamo, è un pò come arrivare da buon studente con la media del 26, all’ultimo esame all’ultimo appello disponibile prima della laurea. Sai che sì, hai tutte le carte in regola per passarlo, sì, hai studiato e sei preparato, però sai che è un esame da one shot one kill e la tranquillità dello studente modello non è più di casa in queste occasioni.

Due match da dentro o fuori, due partite da affrontare con la consapevolezza che in Russia ci si deve andare, una nazione che non è mai stata così vicina e lontana allo stesso tempo come nei 180 minuti che si andranno a consumare. Si deve saper dare la giusta carica ai giocatori senza però fargli perdere quella sana tranquillità che permette la “giocata”, la scelta giusta nel momento giusto. Questo compito è affidato al CT, che per esteso significa Commissario Tecnico. È una parola diversa da Allenatore di club. Il tempo a loro disposizione è diverso. In pochi giorni, in pochi allenamenti si deve dare un’impronta ad un gruppo di singoli perché di squadra, in questo momento, in questo periodo di cambio generazionale, non si può ancora parlare. Una squadra era l’Italia del 2006, una squadra era anche l’Italia di Euro 2016. Quest’ultima la si può tranquillamente rinominare l’Italia di Conte, l’Italia del guerriero Antonio Conte. Si, perché l’ha ampiamente dimostrato da allenatore della Juve e l’ha riconfermato da commissario tecnico in Francia 2016. Lavoro, lavoro e lavoro. Sul campo. Questa la dottrina che Antonio ha portato in nazionale quando è stato assunto, filosofia maturata in sei anni di gavetta culminati con il record di 102 punti con la Juventus ed il terzo scudetto di fila. I suoi record non possono essere raggiunti “solamente” preparando bene le partite o avendo una grande cultura di calcio. Qui c’è un qualcosa in più che ti fa essere superiore agli altri. Della serie: puoi studiare quanto vuoi, ma se non sai districarti nelle avversità non puoi eccellere.  Cos’ha dunque Conte in più di Ventura? Record personali, scudetti e coppe. Raggiunti con tenacia, cultura del lavoro e carisma. Soprattutto carisma. Non che Ventura non abbia queste qualità, ma quando al primo giorno del primo ritiro del primo allenamento entra dalla porta un “vincente”, le cosiddette prime donne ci pensano qualche secondo in più prima di comportarsi come tali. Tutto lo spogliatoio sente che i dettami tattici devono essere seguiti senza lasciar spazio ad una libera interpretazione. Cè quell’aurea nello spogliatoio che solo pochi allenatori riescono a diffondere.

Ecco, è questo che fa la differenza. I giocatori devono capire di avere un condottiero a cui affidarsi, devono avere la netta sensazione che quello che il mister gli dirà è un teorema da seguire, una legge da applicare senza che lui si esibisca in alcuna dimostrazione. In questo modo il poco tempo diventa sufficiente, i singoli diventano gruppo e il gruppo diventa squadra. L’Italia in questo momento transitorio di cambio generazionale ha bisogno di un nome altisonante, ha bisogno di quell’allenatore che quando entra in spogliatoio zittisca tutti solo aprendo la porta. Un carismatico che lavori più sulla testa dei calciatori che non sul loro fisico. Quella persona a cui affidare le proprie qualità, colei che ti convinca ad adattarti ad un ruolo non tuo per il bene comune perché è quello che alla squadra serve in quel momento. Per meglio comprendere il concetto basti pensare all’Eto’o interista ai tempi di Josè Mourinho: uno degli attaccanti più forti del momento schierato come ala e alle volte terzino. “Se giochi ala vinciamo tutto” cit. Mourinho.

Più che parlare di crisi di un sistema credo ci si deve riferire ad uno stravolgimento delle potenze mondiali del pianeta calcio. Grandi capitali, per non dire infiniti, sono entrati prepotentemente nel mondo del pallone sconvolgendo le usuali regole del gioco. Centinaia di milioni fanno da protagonisti nelle trattative tra le società e per dirla con un proverbio tedesco: “quando il denaro bussa, le porte si spalancano. Dio regna nei cieli, il denaro sulla terra”. Questo aforisma rende l’idea di come si possa in poco tempo assemblare una squadra con obbiettivi di primissimo livello. Il Chelsea può essere un buon esempio di questa filosofia che vede Mourinho come suo massimo esponente. Psg e Manchester City sono invece controesempi di quanto affermato in precedenza: tra i primi posti nei rispettivi campionati, titubanti in Champions League. Motivo? La cultura calcistica non è in vendita, ne tanto meno si può fabbricare dal nulla. È una filosofia che si deve formare a partire dalle giovanili, plasmando i giovani secondo un criterio di gioco, attraverso un atteggiamento, costruendosi i campioni in casa. (Barcellona docet). Soffermiamoci qui. O meglio, ripartiamo da qui. Ripartiamo dai nostri giovani, troppo spesso bistrattati a favore di “stranieri” considerati più “pronti”. Siamo immersi nella tendenza del credere che i “gli altri” siano più forti dei “nostri”, che basti un passaporto diverso da quello italiano per far carriera nel nostro campionato. Abbiamo i Donnarumma, i Bernardeschi, i Pellegrini, abbiamo i Chiesa! Sono loro i punti cardinali su cui far riferimento, su di loro dobbiamo affidare le nostre speranze per recuperare la competitività di un tempo in campo internazionale. Prodotti del vivaio di squadre italiane, prodotti a km zero pronti a farsi valere in qualsiasi competizione per riportare agli antichi fasti il nome dell’Italia. Certo, la componente economica avrà un ruolo non indifferente in tutto ciò, soprattutto nel trattenere questi giocatori lusingati da contratti faraonici che gli verranno proposti. Si spera sempre, ahimè, che a prevalere sia il buon senso, l’amore per la maglia ed i tifosi.