Lo spogliatoio è vuoto, deve essere l’ultimo a uscire. Le spalle dei suoi compagni sono l’unica cosa da difendere, prima escono loro, poi esce lui. Non ha bisogno della prima fila, neanche dei riflettori puntati su di lui. Accompagna la sua squadra fino all'entrata in campo e i suoi tacchetti fanno più rumore di tutti gli altri mentre cammina, un ticchettio dal calore del fuoco, una musica dell’anima. La partita comincia e finisce e nel mezzo c’è tanto sudore, tanta gioia, c’è carattere, fango, caldo e freddo. La partita per lui è un dovere, perché ha un compito non facile, difendere la sua causa, la palla non è roba per gli altri. Non stasera. La sua voce è il suono più profondo dentro quel campo, le sue gambe sono il motore più arrugginito e sicuro allo stesso tempo, come una macchina d’epoca che non ha mai visto il meccanico neanche in foto. Non è un ruolo facile in suo, lui è un mediano. Il fulcro, il nucleo di novanta minuti di agonia. Davanti alla difesa e dietro all'attacco, bene o male il gioco passerà sempre da lui. Deve passare da lui, dai suoi piedi. Oh sì, gli vengono in mente tanti ricordi, come quando da piccolo veniva deriso proprio per quei piedi non molto eleganti o perché era troppo piccolo. Guardalo ora, guardalo adesso. Il mister non può fare a meno di lui. “Mi servi tu in mezzo al campo” gli dice. Glielo dice ogni domenica, ogni partita, perché lui ha il diritto e il dovere di essere titolare. Lui ha bisogno di giocare, ma gli altri hanno ancora più bisogno di averlo al loro fianco, anzi, alle loro spalle. Poi, se ci pensi bene, mediano è troppo riduttivo. “Sempre lì, lì nel mezzo” recitava una nota canzone. Il nostro caro Ligabue si sbagliava, lui non è sempre nel mezzo, si annoierebbe. Lui è dappertutto, lui è dove c’è bisogno e dove non c’è, è come un’ombra. Se sbagli non sarà certo lui a buttarti giù, perché lui è già dietro di te, non ha il tempo materiale per rimproverarti, o meglio, sa trovare il tempo e lo spazio giusto per farlo. Perché quando parla lui il silenzio sarà il rumore più assordante, quando urla lui in quel rettangolo, puoi solo uscirne più forte di prima, e ringraziarlo, perché c’era e ci sarà anche la prossima volta. Il mediano è il secondo, il terzo e il quarto mister, il mediano è l’allenatore in campo, perché il destino non gli ha donato i piedi di Maradona, i muscoli di Cristiano Ronaldo e neanche l’agilità di Messi, lui si accontenta della sostanza che vive dentro di lui. Il destino gli ha donato gli occhi, gli ha donato la visione periferica di tutto quello che gli sta succedendo intorno. Per questo sa sempre cosa dire e cosa fare, per questo sa dove finirà il pallone prima degli altri, per questo sa che quel cross verrà spizzato proprio in quel punto, e lui ci sarà, perché è compito suo. Il suo compito è stare lì in quel momento, prendere la palla e darla ai suoi Maradona, Ronaldo e Messi, poi dovrà solo coprirgli le spalle. Come sempre. Lui è tutto questo perché non è solo un mediano, lui è un mediano… e oltre. E solo le parole infinito e oltre hanno così tanti significati. A lui interessano solo due cose, il campo e lo spogliatoio. Non pensa a riviste né interviste. Si allena, gioca e torna dalla sua famiglia. Ecco spiegata la parola oltre. Oltre a essere mediano in campo, lo sei anche in tutto il resto. Lui è stato condannato a proteggere chi ne ha bisogno, che sia il calcio, il lavoro o la vita. Ogni momento è una partita per lui, è il suo dovere. Sembrerà strano, ma in lavanderia lo sanno bene. “La maglia numero otto è sempre la più sporca di tutte. Ah, dimenticavo, per questa volta vi serve anche un sarto perché è strappata!”. “Sì, è la maglia di Steven. Ormai dovresti saperlo”. “A proposito, ha segnato ieri? Non segna mai!”. “No, non ha segnato. Però al novantesimo vincevamo uno a zero, gli altri attaccavano come matti. Tirano a porta vuota e lui si immola respingendo il tiro sulla linea. Poi è finita finalmente, tre punti fondamentali. Quindi sì, ha segnato.” E lui si ritrova lì, nello spogliatoio, con gli occhi chiusi a pensare a quanto gli piace fare tutto questo, alla soddisfazione di un tackle riuscito piuttosto di un gol, a recuperare più palloni possibili. Apre gli occhi, la squadra è già uscita. Ora tocca a lui. “Steven, dobbiamo andare!” gli dicono. Lui tira un respiro profondo, si guarda allo specchio, sente i cori dei tifosi che sono come mani cullanti. “Quando starò per morire, non portatemi in ospedale, portatemi qui. Qui sono nato e qui voglio morire”. Poi va, la squadra ha bisogno di lui. Il suono dei tacchetti prima della bolgia. E tutto ricomincia, il ciclo vitale. Non camminerete mai da soli, fratelli. You’ll never walk alone.