Quando si pensa ad Antonio Conte, non vengono in mente speranza e timore. Lui mai si aggrappa al Fato, alla casualità favorevole: lavora, dà tutto sé stesso e ottiene. La paura? Questa sconosciuta. Rispetto per tutti e timore di nessuno, per Conte non è uno slogan ma il comandamento. Valeva quando era calciatore e vale da quando guida i calciatori, anche oggi in Nazionale. Proviamo a sondare un completo ignorante in materia: la nuova Italia ha giocato tre partite con l'ex allenatore della Juventus come commissario tecnico, secondo te quante ne ha vinte? Sarebbe un plebiscito per il numero perfetto. Perché Conte dà sicurezza, perché il volto concentrato non muta mai espressione se non appena fischiata la fine della gara; dopodiché, interviste e immediata proiezione sull'impegno successivo. Un "martello", si dice. Una paura ci deve essere...Ah, sì: quella di non vincere. Per sua fortuna (no, non nel senso di speranza), avviene di rado. Tornando alla predominante sicurezza di sé, nessun indugio nel lanciare i giovani (italiani, oggi è "costretto") di qualità: prima o poi, non per caso, arrivano. Conte è un maniaco del mestiere, ma al contempo un adattatore alla realtà; non suscita simpatia, non ammalia il pubblico e questa non è una notizia per chi ha il "vizio" di vincere e avere successo. Quel che è certo, è che l'Italia è in buone mani: i piedi, quelli dei calciatori azzurri, sono quelli che sono. Conte è il migliore allenatore, ma non è una divinità: non può clonare il portiere, moltiplicare i difensori, svecchiare i centrocampisti e inventare gli attaccanti. Non stravolge, se non la legge di Murphy del "Se qualcosa può andare male, andrà male": ecco, con lui l'Italia la ribalta in "Se qualcosa può andare meglio, con Conte allenatore andrà molto meglio". Nessuna speranza, nessuna paura. Intenti uniti, lavoro e la prima certezza: Conte sarà contento quando si dirà "Che bella Italia!". E si dirà.