Si continua, probabilmente impropriamente, a definire il calcio come un gioco.
Ma è un gioco? Sicuramente lo è a livello amatoriale, quando lo si gioca, appunto, tra bambini, magari sul campo improvvisato, con due scarpe o due pietre come pali e l'asfalto come terreno in cui affrontare la propria sfida ed i propri sogni. Ma quando si entra nel mondo del professionismo si può ancora parlare di gioco? No.

Il calcio a livello professionistico non è più un gioco, ma una professione, un lavoro. Un mondo dove l'adolescenza sparisce presto, un mondo dove non ci può permettere di essere ragazzi, ma adulti. Un mondo dove si diventa uomini prima che altrove. Un mondo dove si bruciano tappe, età. Certo, si dirà, si è pagati e tanto. Dieci, quindici anni di carriera e poi vivrai di rendita. Forse. Non per tutti. Ma nel momento in cui il calcio diventa una professione, un lavoro, nel momento in cui il ragazzo non può fare più ragazzate, si rischia di perdere quella genialità, quella spensieratezza, che ha permesso al calcio di regalare anche grande spettacolo? I grandi talenti ci sono, ma i grandi campioni, quelli che ricorderai per diverso tempo li puoi contare forse sulle dita di una sola mano. Una volta non era così.
La disciplina nel calcio è necessaria, le regole sono necessarie, senza regole e la giusta disciplina la squadra salta e vince l'individualismo esasperato. Però l'eccessiva professionalizzazione del calcio, un mondo dove si brucia la giovinezza, dove un ventenne dimostra 40anni, dove forse è l'unico settore nell'occidente che a vent'anni ci si sposa, rischia di compromettere quella spontaneità, quella bellezza, quell'inventiva, quella sregolatezza che ha caratterizzato da sempre la storia del calcio?

Uno sport inventato forse in Oriente, c'è chi parla di Cina o Giappone, per poi transitare per l'antica Grecia, sbarcare nell'Italia medioevale con il calcio fiorentino ed approdare nella patria del calcio moderno, l'Inghilterra, dove era uno sport per pochi, per ricchi, dove ai dieci studenti si aggiungeva il maestro della classe, l'undicesimo uomo in campo, l'attuale capitano.
Secoli di storia, di un gioco, forse mai stato realmente un semplice e banale gioco.