Calcio e politica sono due mondi che apparentemente potrebbero sembrare separati, paralleli, antitetici, ma in realtà presentano molte più affinità e vicendevoli influenze di quanto si è portati a pensare. Sprovvisto delle conoscenze adatte, non è mia intenzione di scandagliare un settore, quello politico, così complicato e pericoloso, perciò la mia attenzione verterà sul percorso storico-geografico che ha gradualmente trascinato due pianeti così opposti verso un unico centro gravitazionale. A tal proposito, un altro terreno minato è rappresentato da quelle frange estremiste ed estremizzate di tifosi, i quali, in nome di ideali che sentono evidentemente come giusti, si sono resi protagonisti nel tempo di azioni che col Calcio hanno poco o nulla  a che fare. È bene quindi non addentrarci in questo sentiero così impervio. 

Il Calcio, grazie alla sua potente attrattività sulle masse, ha sempre svolto un ruolo chiave nei disegni politici di quegli uomini che se ne servono per accrescere la propria cerchia di consenso, ottenendo così più voti alle elezioni e, conseguentemente, più potere. Non deve sorprendere, poi, che queste pratiche siano più diffuse in quelle Nazioni dell'Europa orientale nate dallo scioglimento della vecchia Unione Sovietica, avvenuto nel 1991, dove la ricerca di consenso popolare è più sentita e necessaria che altrove, e dove un peso socio-politico fondamentale è da sempre promosso dall'esercito e, nella penombra della legalità, da polizie più o meno operanti alla luce del sole.

Così, non possiamo non partire dal caso più emblematico, quello di CSKA Mosca e Dinamo Mosca in Russia. La sottile linea di legittimità che separa questi due club fin dai primi anni '20 del secolo scorso, non è evidentemente poi così sottile: il CSKA - denominazione ufficialmente presa nel 1936, dopo un susseguirsi ininterrotto di "simpatici" acronimi - era la squadra dell'esercito russo (un tempo conosciuto come la temibile Armata Rossa), che oggi ha evidentemente allentato la presa, pur detenendo ancora una quota di minoranza all'interno della società, mentre la Dinamo Mosca, sebbene di umili origini essendo nata per volontà di alcuni operai, era il "Dream Team" della Čeka, la famigerata polizia segreta sovietica, e in seguito dell'ancor più nota KGB. 

Con la dissoluzione dell'URSS, il CSKA Mosca è rimasta ai vertici del calcio russo, - anzi negli ultimi anni ha vinto di più - mente la Dinamo è lentamente scomparsa dai radar, addirittura retrocedendo per la prima volta nella sua storia nel 2015/16. Stessa sorte è toccata alla Torpedo Mosca, la squadra della "Forza Proletaria", legata evidentemente al Popolo russo, quello delle fabbriche, i lavoratori che sputavano sangue giorno dopo giorno. ​​​​​​Se oggi questo club annaspa nei bassifondi della terza serie per cause economiche, negli anni '50-'60 ottenne gloria e successi in serie, grazie al talento di Eduard Strel'cov, la cui storia merita una parentesi nel nostro racconto.

​​​​​​Eduard Strel'cov, soprannominato il "Pelé Bianco", ma anche il "Best Russo", fu il simbolo vivente del peso che la politica aveva in quegli anni in Russia. Già precoce capocannoniere del campionato, condusse il Torpedo alla conquista di numerosi trofei, prima che la sua carriera fosse rovinata da un increscioso complotto, ordito ai suoi danni da esponenti di spicco proprio di quell'esercito e quella polizia segreta che, nella Russia sovietica, avevano letteralmente diritto di vita o di morte sugli individui. Figurarsi se quest'uomo era un proletario. Strel'cov, rifiutando il trasferimento al CSKA prima, alla Dinamo poi, firmò la sua condanna a morte: con un pretesto venne accusato di violenza sessuale e rinchiuso in un campo di concentramento - i tanto indimenticati, quanto riprovevoli Gulag - dove finì tristemente i suoi giorni.

Chiudono il cerchio della 'politica pallonara" russa lo Spartak, la squadra del Popolo inteso come ultimo gradino sociale, e la Lokomotiv, il "club dei ferrovieri", le cui umili origini testimoniate anche dalle denominazioni (Spartak deriva da Spartaco, il celebre schiavo che si ribellò all'Impero Romano) sono contrapposte ad anni di successi e trionfi, soprattutto - e non è un caso - dopo quella fatidica data del 1991.

Nell'Europa orientale, come già accennato, la componente politica fu decisiva e ciò che avvenne ad esempio in Bulgaria, in Polonia, ma anche in Ungheria e in Repubblica Ceca lo testimonia. Sembra quasi che ci sia un modus operandi, una prassi ben consolidata per quanto riguarda la compenetrazione tra Calcio e motivi politici. Vengono date alle luce società sportive con chiari intenti e direttive ideologiche, ma nettamente separate tra loro: i club organizzati intorno a circolo di intellettuali, di studenti universitari, di ebrei ormai assimilati alla società in cui rivestono ruolo di primo piano (la Stella Rossa di Belgrado, ad esempio, o lo Slavia Praga, ma anche Wisla Cracovia e Slavia Sofia), ai quali facevano da contraltare le squadre di calcio create dal ceto operaio, quasi come avessero raccolto un ideale guanto di sfida (Legia Varsavia, Levski Sofia, il Partizan di Belgrado e lo Sparta Praga hanno origini alquanto modeste).

Un capitolo a parte merita sicuramente l'Ungheria, dove da decenni dominano le squadre della Capitale Budapest. Qui, un tempo, la rivalità più accesa - che sussiste tutt'ora, forse in maniera ancora più evidente rispetto al passato - era quella tra gli operai del Ferencvaroś (la Juventus d'Ungheria per titoli vinti) e gli ebrei intellettuali del MTK Budapest, che si allargò negli anni '50 ad altre due squadre: l'Ujpest, emerso in seguito alla Rivoluzione Democratica del 1956, e soprattutto l'Honved, vero e proprio "esperimento di laboratorio politico".

Questo club, infatti, è legato indissolubilmente alla Grande Nazionale di calcio ungherese di quegli anni, guidata da Sebes, il quale voleva far coincidere il nucleo vincente della "Squadra d'Oro" con quello di un club cittadino (un po' come il ruolo recentemente esercitato dalla Juventus in Italia.). Non potendo contare sui due storici club, Ferencvaroś e MTK, che per motivi ideologici non erano nelle grazie del Partito Comunista salito al potere in Ungheria dopo la Seconda Guerra Mondiale, Sebes, uomo forte del Partito, scelse il Kispest. Questo club, non essendo "libero" politicamente, fece a caso dei comunisti, che lo rinominarono Honvéd (dall'antico nome dell'Esercito Ungherese), diventando la succursale calcistica delle milizie sulla falsariga di quanto successo in Russia e in Bulgaria con il CSKA.

Ciò che avvenne in questi Stati europei orientali si ripropose anche in Grecia. La dicotomia intellettuali/operai, ricchi/poveri è riassumibile nella contrapposizione Panathinaikos/Olympiakos, ma con una terza, originale voce: quella dell'AEK Atene. Questo club, infatti, sorse negli anni '20 grazie all'opera di un manipolo di rifugiati greci, che da Istanbul ritornarono in fretta e furia a casa in seguito ai soprusi perpetrati nei loro confronti nella terribile guerra greco-turca. L'origine politica di questa sqaudra - velata da un orgoglio greco ben evidente - è presente e ben rintracciabile nella stessa denominazione, e pure nello stemma: la "kappa" in AEK sta per Costantinopoli (antico nome di Istanbul) e l'aquila bicefala nello Scudetto è simbolo dell'ultima dinastia regnante sull'Impero Bizantino, di Costantinopoli appunto.

Calcio e politica, dunque: due fili paralleli e separati di un unico, grande ed inestricabile gomitolo.