All'inizio degli Anni Novanta, il calcio viveva un'epoca di grande fermento. Il Milan di Sacchi aveva riscritto il modo di pensare e di fare calcio, avviando una transizione verso un nuovo approccio all'organizzazione di gioco e alla preparazione atletica. Soprattutto nelle scuole "latine" alcune certezze vacillavano: la marcatura a uomo, il libero, il terzino fluidificante, l'ala tornante, il gioco di rimessa o in contropiede, il numero 10 di grande tecnica. Si parlava sempre di più di centrali di difesa, di esterni bassi o alti, di possesso palla, di sovrapposizioni, di tagli, di pressing, di intelligenza tattica. Nonostante la successiva mutazione profonda del calcio, questi due modi di intendere questo meraviglioso giuoco si fronteggiano tutt’ora: da una parte l’organizzazione, il possesso palla e la diligenza tattica; dall’altra l’adattamento all’avversario, l’importanza del singolo e la ricerca della superiorità numerica. Esistono naturalmente versioni sfumate delle due scuole, come si potrebbe dire della Juventus di Allegri, una sintesi originale tra la vecchia scuola italica e il calcio totale: possesso palla e disciplina tattica, ma continuo adattamento dell’organizzazione di gioco alle qualità dei singoli.  Ed esistono versioni oltranziste, come quella di Sarri, i cui droni sorvolano gli allenamenti per correggere anche i minimi dettagli di un meccanismo che presuppone un’organizzazione tattica quasi perfetta. Si tratta, com’è stato per il Milan di Sacchi o il Barca di Guardiola, di un modo di intendere il calcio che, unito a grandi interpreti, può avvicinarsi ad una sublime perfezione, portando a risultati straordinari. Nel caso di Sarri, che comunque in queste 20 giornate di campionato ha fatto benissimo, il giocattolo è andato a volte in crisi per mancanza di interpreti e sin d’ora non ha assicurato al Napoli i trofei che negli anni precedenti erano stati messi in bacheca:  come conciliare la necessità di insegnare la propria idea di calcio ai ritmi forsennati imposti dal calcio contemporaneo? Capello risolveva la questione chiedendo ai propri presidenti un “instant team”, ovvero una rosa di grandi interpreti capaci di produrre immediatamente risultati di alto livello. Sarri sostiene di non avere questa possibilità, per ragioni di budget. Dati alla mano, questo è vero solo in parte, dato che il suo presidente ha fatto grandi investimenti, a volte non fatti fruttare dall’allenatore: per fare un esempio, Maksimovic è costato circa 25 milioni di euro e ha totalizzato più o meno 20 presenze in due anni; prima dell’infortunio di Milik, nella scorsa stagione Mertens sedeva solitamente in panchina; un perfetto dodicesimo uomo, come Giaccherini, è scomparso dalla circolazione, nonostante venisse da un Europeo di grande livello; alcuni giovani giocatori di sicuro avvenire (Diawara, Rog) si vedono rarissimamente in campo e si sono trovati a giocare partite di livello (anche in Europa) senza avere la necessaria continuità di gioco. Il gran rifiuto di Verdi, che peraltro deve proprio a Sarri la sua consacrazione ad Empoli, pone dunque un paio di interrogativi: insegna meglio calcio chi parte dal talento dei propri giocatori o chi presuppone un preventivo adattamento del singolo al sistema di gioco ? E la difficoltà di convincere un giovane talento in ascesa ad accettare il Napoli, nonostante contratti a molti zeri, non nasconde il condizionamento dovuto alla palese solitudine del panchinaro di Sarri? Ai più bravi l’ardua sentenza.