"Voglio vivere così, col sole in fronte e felice canto beatamente" cantava Ferruccio Tagliavini agli inizi degli anni 40. Un'epoca oramai lontana, di una società che nella tranquillità e nella beatitudine ricercava i suoi principali desideri di realizzazione. In effetti, a quell'epoca, se una bomba esplodeva a più di dieci metri di distanza era da considerare una giornata fortunata. Anche il calcio era diverso, in quell'epoca nacque (e tristemente morì) il Grande Torino. Era un calcio semplice, non solo per la chiara assenza di tecnologie: non vi erano ancora sostituzioni, niente cartellini per sanzionare i falli, fino a qualche anno prima persino la regola del fuorigioco era diversa. Settanta anni dopo, nessuno avrebbe mai immaginato che, risolto ogni problema con i nostri regimi assolutistici e le guerre fra le mura domestiche, non avremmo comunque ottenuto la tranquillità e la beatitudine desiderata. La congiuntura economica, la paura del diverso, gli ex compagni di classe che chiedono l'amicizia sui social network, le fake news, l'effetto dunning-kruger, il VAR nel calcio (in inglese Video Assistant Referee). Sì, il VAR nel calcio.

Il VAR è stato introdotto come una delle più grandi innovazioni del mondo, più importante persino della penicillina e del motore a scoppio: avrebbe dovuto placare gli animi di ogni tifoso, che già pregustava il piacere di poter sorseggiare il suo tè con i biscotti mentre dal campo tutto si sviluppava senza errori, sviste arbitrali e senza steward picchiati selvaggiamente in curva sud. Tutti seduti comodi a rilassare collo, braccia e gambe dopo una settimana di duro lavoro sottopagato e con carichi di lavoro assurdi, soprattutto se si lavora negli uffici pubblici fra una timbrata di cartellino, un caffè e un altro caffè.

Niente tranquillità e beatitudine per noi comuni mortali. Si grida allo scandalo ogni domenica, le tifoserie si insultano, gli errori ci sono e si vedono anche nelle tv dello stadio ma non è cambiato niente: la squadra avversaria ha comprato l'arbitro, per i tifosi della squadra avversaria è l'altra squadra avversaria ad aver comprato l'arbitro. Inizia un'asta e solo le squadre col fatturato più alto possono permettersi di vincere l'asta per comprarsi l'arbitro. Si va avanti ma si torna indietro, per molti. A questo punto mi chiedo perchè io non abbia fatto l'arbitro. A quanto pare, a detta dei tifosi, ci si guadagna.

"Potrebbe essere errore umano?" interviene placidamente un povero amante dello sport, ma oramai è guerra aperta. Gli insulti si dividono, contro l'arbitro, contro i tifosi avversari e contro il povero amante dello sport, colpevole di essere colluso col sistema. Non esiste altra versione. L'arbitro è stato comprato, da tutti, da pochi o da qualcuno, poco importa. La cultura del sospetto non può essere sporcata da interpretazioni contrarie o distensive. La ricerca della tranquillità e della beatitudine non può essere bloccata da un vile amante dello sport che spera che tutto sia casuale, non indotto, che sia semplicemente sport. Perchè in ogni sport c'è l'errore. L'errore dell'atleta, del selezionatore, dell'arbitro, del telecronista, spesso persino dei sistemi di illuminazione e dei semplici cronometri digitali che segnano il tempo di gioco. Ogni cosa fa parte del gioco del calcio. Perchè di gioco si tratta, altrimenti l'avremmo chiamata guerra (in inglese WAR). La guerra del calcio.

Fra settanta anni dubito ci sarà ancora il VAR, cambieranno le regole, forse sarà eliminato perfino l'arbitro, una professione troppo pericolosa per un paese democratico che ripudia le guerre, ma molto probabilmente ancora non sarà saziato il nostro desiderio di tranquillità e beatitudine. Alla ricerca continua, fra un rigore non chiamato, un tocco di mani e la testa dell'arbitro a fine gara.