I problemi del calcio nostrano sono molteplici e si riflettono, inevitabilmente, sia sulla Nazionale che sulle squadre di club.
Le risorse finanziarie destinate allo specifico settore incidono, ma fino ad un certo punto. Se penso alla Premier, ad esempio, i diritti TV dell’ultima sono pressoché uguali a quelli della prima in Italia, ovvero 100 milioni (mentre una neopromossa da noi guadagna poco più di 20 milioni).
Ora, sebbene ci sarebbe da discutere (e tanto) sul principio di distribuzione dei diritti TV in Italia, resta il fatto che le cascate di denaro in Premier non coincidono necessariamente con il raggiungimento di risultati sportivi di un certo livello. Anzi, se si considerano gli investimenti di top club come l’Arsenal, il Manchester Utd e City, il Chelsea ecc., si può tranquillamente parlare di fallimento sportivo.
Inoltre, siccome i risultati delle squadre di club si rispecchiano anche nella Nazionale, ecco che l’Inghilterra sta anche peggio di noi.

Ma tornando ai nostri problemi (è bene sempre guardare prima in casa propria), ci sono altri aspetti che zavorrano il calcio italiano. Intanto gli impianti sono vecchi e inadeguati, la mentalità degli appassionati e degli addetti ai lavori (stampa compresa) è spesso annacquata da logiche di campanilismo (con schermaglie puerili perfino nelle istituzioni) e l’espressione del calcio giocato è tristemente saldato ad un modello che non fa scuola da decenni (ad eccezione del Napoli di Sarri).

In ultimo, ma non per importanza, i settori giovanili. Personalmente ritengo che molti dei problemi del calcio di bandiera si possano risolvere destinando maggiori attenzioni (e risorse) al settore giovanile, che poi rappresenta la nostra scuola calcio. Mi sono da poco imbattuto in una squadra primavera di una società di serie A e, con l’occasione, ne ho approfittato per fare due chiacchiere con giocatori e accompagnatori. Innanzitutto sono stato sorpreso della stazza fisica dei giocatori, a prima vista pensavo si trattasse di una squadra di basket o di volley.
Parlando con molti ragazzi ho scoperto che la maggior parte di loro predilige giocare da centrale. I pochi di fascia (me li sono fatti indicare) erano “adattati”, soprattutto in difesa, mentre in attacco c’era più scelta. Stranieri, a dir la verità, non tanti e, soprattutto, nessuno tra mediana e centrocampo (è una piacevole eccezione se confrontata ad altre squadre primavera).
Ma la cosa che più mi ha colpito è la mancanza di esterni puri, siano essi di difesa o di centrocampo e, insieme a loro, di uomini di “estro” (i numeri 10 per intenderci).

Ora, lungi da me voler dare sentenze sul settore giovanile dopo un incontro casuale in un autogrill con una squadra di passaggio, ma seguo spesso il campionato primavera e, quando posso, lo seguo anche in Tv (è possibile assistere ad alcune partite trasmesse su un canale sportivo del digitale terrestre). Tuttavia, l’incontro con questi ragazzi mi ha fornito alcuni spunti di riflessione, tra questi il fatto che in Italia, da anni, si fa fatica a trovare terzini puri e ali di centrocampo degni di nota. Gli ultimi che ricordo sono Zambrotta e Camoranesi (che non è certo della nostra scuola). Ormai sono generazioni che in Italia si vedono solo profili più adatti come esterni nel 352, cioè in grado di fare tutta la fascia e le due fasi, ma in difficoltà se impiegati in copertura o, peggio ancora, incapaci di saltare l’uomo (se non con la corsa stile Candreva).
E il dribbling? Non esiste, meglio insegnare ai ragazzini il passaggio laterale appena sono contrastati dall’avversario. E’ questa è stata la risposta che ho ricevuto a domanda precisa. “Se sbaglio un dribbling il mister mi dà legnate” oppure “il dribbling è per le punte”.
Trovo tutto ciò assurdo, se ai nostri giovani, futuro del calcio italiano, leviamo la gioia della “giocata” e, soprattutto, non gli insegniamo a dare del “tu” al pallone, possiamo andare anche peggio di quanto visto finora.

In fondo, a ad assistere ai “prodotti” di queste ultime generazioni, specie quando vengono chiamati a confrontarsi in contesti internazionali, si notano giocatori “timidi”, dal fraseggio scolastico (con ritmi compassati) e l’assoluta mancanza della “giocata”, vera essenza del calcio.