È un riconoscimento seguito, considerato, globale. Il Pallone d’Oro seduce, è così da sempre, sarà così anche oggi. Vincere il premio più ambito da ogni calciatore equivale a vincere un trofeo, individuale anziché collettivo: l’affermazione di un singolo passa anche e soprattutto da qui. Qualche giorno fa ho scritto un articolo sugli italiani vincitori del Pallone d’Oro, oggi ne scrivo un altro per rendere omaggio a quei campioni che non se lo sono mai aggiudicato. Perché alle loro stupefacenti carriere manca soltanto questa piccola palla dorata.

 

Thierry Henry

 

I don’t recognise myself in the players I see today. There’s only one who excites me, and that is Thierry Henry. He’s not just a great footballer, he’s a showman, an entertainer”. La descrizione definitiva di Henry la dà George Best, uno non avvezzo a ricercare paragoni. Ma, di fronte al francese, è impossibile non riconoscere le caratteristiche di spettacolarità, unite a un’onnipotenza in campo che pochissimi possono vantarsi di aver avuto. “Per i difensori, era imbarazzante: segnava quando voleva. Poteva prendere il pallone in mezzo al campo e segnare un gol che nessun altro al mondo avrebbe potuto segnare”, ha detto Wenger. Ammirare Henry in campo è un’esperienza talmente abbagliante da oscurare persino il suo ricco palmarès, in cui figurano cinque campionati, una Champions, un Mondiale e un Europeo. L’Arsenal degli Invincibili era invincibile perché tale era Henry, capocannoniere in Premier per quattro volte in cinque anni (dal 2002 al 2006). Anni in cui è andato vicinissimo a vincere il Pallone d’Oro: secondo nel 2003, terzo nel 2006.

 

Clarence Seedorf

 

Nelle dieci stagioni passate al Milan, soltanto una volta Clarence Seedorf non ha disputato la Champions League. C’è un luogo comune, a proposito di Clarence Seedorf, secondo cui l’olandese mostrasse tutta la sua classe e la sua efficacia soltanto nei cosiddetti “match che contano”. Naturalmente, il luogo comune è fallace: ribaltandolo, si potrebbe invece affermare come Seedorf spiccasse, per personalità e decisività, soprattutto nelle partite più importanti, con una costanza rara da incontrare nella maggior parte dei giocatori dell’epoca, o attuali. Il fatto che, dalla prima stagione lontano dall’Ajax, alla Sampdoria, all’ultima italiana, la 2011/12, non abbia mai giocato meno di 30 partite all’anno dimostra il suo costante peso in ogni squadra in cui ha militato. Pezzi di bravura come il gol al Bayern Monaco del 2007, o il missile del 3-2 in rimonta all’Inter, sono capitoli di storia moderna del calcio. Non soltanto i trofei alzati da protagonista (tra cui 4 Champions League): la classe con cui addomesticava ogni pallone, la visione di gioco, la facilità di passaggio in spazi stretti, lo rendono uno dei primi nomi da considerare quando si parla di un ipotetico “Pallone d’Oro alla carriera”.

 

Andrea Pirlo

 

Andrea Pirlo è, senza dubbio, tra i tre calciatori italiani più talentuosi degli ultimi vent’anni. Non sarebbe strano vederlo titolare in un’impossibile formazione composta dai migliori Azzurri della storia del nostro calcio. Soprattutto, in una generazione in cui, per caso o sfortuna o demeriti, i fuoriclasse non sono riusciti a replicare del tutto sul piano internazionale quanto di buono fatto con la maglia di club (Del Piero e Totti), Pirlo invece c’è riuscito. Ci sono pochi dubbi sul fatto che sia, fuori dai confini nazionali, il calciatore italiano più venerato. È “the Maestro”: in lui il mondo vede una sorta di replica calcistica del Rinascimento, una cartolina di sensibilità e capacità artistiche italiane che da sempre hanno affascinato il mondo. Ogni sua giocata è artistica: dalla parabola dei celebri assist a lob da fuori area, alle punizioni chiamate “maledette”, al flemmatico dondolio con cui sa disorientare gli avversari in marcatura alta, al pallonetto con cui si permette di sbeffeggiare, in un quarto di finale di un Europeo, la nazione che ha inventato il calcio. Più che un Pallone d’Oro, Andrea Pirlo meriterebbe un trattato.

 

Samuel Eto’o

 

Ci sono stati anni, coincidenti circa con il suo periodo trascorso al Barcellona, in cui Samuel Eto’o è stato inarrestabile. Succede, a certi giocatori, in certi momenti: Cristiano Ronaldo e Lionel Messi lo sono da anni, Neymar sembra esserlo diventato in quest’inizio di stagione, Ibrahimović lo è stato. Casillas, intervistato nel 2009 sul passaggio di Eto’o all’Inter, disse: “Era il mio incubo”. In quegli anni il camerunense aveva una capacità quasi irreale di trovare il gol (129 in 199 partite, in blaugrana). Il fatto che palloni fossero “passati” da Ronaldinho, Messi, Pedro, Bojan, Henry, rendeva il tutto ancora più spaventoso.

 

Didier Drogba

 

È capitato di sentir dire, a proposito di Drogba, che “due-tre gol decisivi non fanno un Pallone d’Oro”. Dipende da quanto sono decisivi, probabilmente. Se il Pallone d’Oro fosse solo un riconoscimento al talento, nella lista dei vincitori figurerebbe una decina scarsa di nomi (anche se negli ultimi anni, a dire il vero, funziona così). Se invece, al pari del talento, teniamo in considerazione il carisma, l’autorità, la capacità di prendersi la squadra sulle spalle, chi meglio di Didier Drogba? Puoi essere nel tuo anno di grazia, e segnare sempre: ma sarebbe troppo facile. Drogba, uno che la voglia di vincere te la spiattellava in faccia non ha scelto la sua annata da 29 gol in Premier per vincere la Champions, ma quella da 5, il 2012: suo il gol al Barcellona nella semifinale di andata, suo il colpo di testa disperato al Bayern in finale quando sembrava che non ci fosse più nulla da fare, suo il rigore decisivo.

 

Raúl González Blanco

 

Prima che Messi e Ronaldo riempissero gli almanacchi a suon di gol, c’era stato un ragazzo gracile a cui il gol veniva spontaneo, come se dovesse solo pronunciarne la parola. Raúl, che per parecchio tempo ha conteso a Inzaghi il record di reti segnate in Champions, è stato l’antesignano dei numeri da paura: 29, 29, 32, 29, 25 i centri stagionali messi a segno tra il 1998/99 e il 2002/03. Una macchina da gol, in grado di superare persino Alfredo Di Stefano in cima ai bomber di tutti i tempi del Real Madrid. Con i Blancos Raùl ha vinto tutto, da trascinatore: sei campionati spagnoli, tre Champions League, due Intercontinentali, per limitarsi alle competizioni maggiori. Ha segnato in due finali diverse di Champions, unico a riuscirci nella storia del Madrid, nel 2000 e nel 2002: due anni, dove, però, in contemporanea c’erano Europei e Mondiali. In quello di mezzo, il 2001, la giuria del Pallone d’Oro lo ha votato per secondo, dietro Michael Owen. Fosse stato presente mentre la Spagna aveva smarrito la nomea di Nazionale perdente, ci sarebbe stato ben altro epilogo.

 

Steven Gerrard

 

Se il Pallone d’Oro viene spesso assegnato non soltanto sulla base delle qualità assolute, ma anche e soprattutto (almeno prima della dittatura Messi-Ronaldo) per i trofei vinti in quella determinata stagione, allora Steven Gerrard deve averci sperato, forse, nel 2005, dopo la vittoria della Champions League a Istanbul contro il Milan. In quella occasione viene nominato Mvp della gara nonostante una prestazione buona ma non eccelsa: forse, se avesse avuto il tempo di calciare il quinto calcio di rigore, le cose sarebbero andate diversamente. L’impressione è che Gerrard non abbia mai trovato lo spazio giusto, in termini anche di fortuna, per risultare il migliore di una singolare annata, pur essendo stato, per più di un decennio, una presenza fissa in un’ipotetica squadra ideale mondiale. Anche la Premier League 2013/14 sfumata all’ultimo, probabilmente, non avrebbe aiutato. Tuttavia, 186 reti in 710 partite meritano senza dubbio un certo tipo di riconoscimento.

 

Gianluigi Buffon

 

Pochi dubbi nel considerare che Buffon sia il portiere più forte degli ultimi vent’anni. Ma il Pallone d’Oro ha visto un unico vincitore in quel ruolo: il leggendario Lev Jashin, nel lontanissimo 1963. Buffon è arrivato secondo nel 2006, dietro Cannavaro, in un Mondiale in cui è stato decisivo con quella fantastica parata su Zidane in finale. Ma la grandezza di un giocatore non la si vede solo nelle vittorie, ma anche nelle sconfitte. E Buffon questo lo ha mostrato più di tutti: forse la sua più grande delusione professionale, la finale di Champions persa nel 2003, è anche una delle sue prestazioni più incredibili. La parata sul colpo di testa di Inzaghi nel primo tempo è qualcosa di marziano, come pure il modo in cui neutralizza il rigore di Seedorf nell’all-in finale. Perché è questa la verità: per affermare la sua grandezza, uno come Buffon non ha bisogno di trofei.

 

Andrés Iniesta

 

Probabilmente il 2010 lo avrebbe dovuto vedere vincitore. In qualsiasi altra epoca Don Andrés avrebbe vinto, perché ha tutti i connotati tipici del vincitore: classe, capacità di essere decisivo, vittorie sul campo, racchiuse in quel gol all’Olanda nella finale dei Mondiali 2010, anno in cui arrivò secondo nelle preferenze del premio dietro Messi (sarebbe arrivato terzo due anni dopo). E poi, se Iniesta tra club e Nazionale ha giocato in due delle squadre più belle di sempre – oltre che vincenti -, buona parte del merito è suo. Eleganza, tempi di gioco, visione soprannaturale.

 

Xavi Hernández Creus

 

Arrivato tre volte terzo, sul piazzamento 2010 nuvoloni grigi si sono addensati come nel più plumbeo dei cieli di gennaio. La stagione del sextete ha rappresentato la più epica delle annate. Sei trofei nazionali ed internazionali con il Barcellona, Mondiale vinto con la nazionale spagnola più forte di sempre e solo terzo posto nella classifica del premio istituito da France Football. Certo è complesso definire in maniera univoca quale fosse il calciatore spagnolo cui andasse assegnato un premio per il ciclo sfavillante dell’invincibile armata roja, ma se si fosse deciso almeno una volta di darlo a Xavi, che di quella squadra era al tempo stesso ingranaggio centrale e motore, vertice e base, nessuno si sarebbe stupito. Tutto sarebbe rientrato nella più ovvia e corretta delle conclusioni.

 

Lilian Thuram

 

In un calcio ormai lontano ha unito l’energia e l’estetica, in maniera universale, con la forza fisica e l’intelligenza. Lilian Thuram ha rappresentato il ponte ideale per un passaggio tra ere differenti. Venuto dalle terre d’oltremare, solo apparentemente lontane dalle rive metropolitane di una nazione in fermento: il difensore guadalupense ha rappresentato la fortificazione invalicabile su cui si è costruita una delle nazionali più importanti di sempre. Multietnica e progressista, vincente e spigolosa. Se vinci Mondiale, Europeo, Confederations Cup, Scudetti, Coppe e Supercoppe nazionali la tua carriera non può che essere definita strepitosa. Thuram inoltre vanta il record di presenze totali nelle fasi finali del campionato europeo (16), un 7imo posto nella classifica del Pallone D’Oro ’98, inserito nella formazione ideale di Euro 2000, mentre per due volte il suo nome è figurato nell’All-Star Team del campionato mondiale (1998 e 2006).

 

Paolo Maldini

 

Come ci si approccia al mito? Alla bellezza del singolo gesto in una forma pura come quella che era capace di esprimere Paolo Maldini? Tetragono nel suo contrastare una società che, pur avendo amato intensamente, si trova oggi allo sbando. Il figlio di Cesare ha vinto tutto, o quasi, quello che poteva vincere; è arrivato sul podio del Pallone d’Oro con una decade di distacco (’93-’04), mostrando al mondo quanto valgano il sacrificio e il lavoro quotidiano per un atleta. Quanto pagheremmo oggi per vederlo ancora scivolare preciso e pulito tra le gambe degli avversari, arpionando palloni nella maniera di una baleniera decisa ma gentile?

 

Zlatan Ibrahimović

 

Il ragazzo del ghetto ha avuto tutto. Rosengard è oggi “la città di Zlatan”, quel posto poco accogliente in cui è cresciuto è diventato ora famoso grazie a lui. Ha portato l’approccio insolente delle periferie al centro del grande calcio. La forza detonante che sprigiona in ogni movimento, ha fatto di lui uno dei calciatori più terrorizzanti che ci si possa trovare ad affrontare su di un campo verde. Di conseguenza si è attirato tutto l’odio – spesso in forma di amore tradito – dei tifosi di mezza Europa. Ibra ha vissuto per troppo tempo con la pancia vuota e ha cercato di riempirla con i trofei, i premi e gli allori. Gli è mancata troppo spesso la Champions, la preda perfetta e mai raggiunta; l’ultimo tassello da incastrare in una vita, sportiva e non, altrimenti perfetta

 

Ryan Giggs

 

La corsa leggera, l’incidere deciso, le finte ad ipnotizzare l’avversario. La maglia rosso sangue che sfreccia continua tra i vecchi filmati che lentamente si fanno più moderni. Primatista di presenze con lo United nelle competizioni UEFA. Tutta la vita divisa tra Red Devils e nazionale gallese. Talmente rapido che il 18 novembre 1995 è riuscito a segnare il gol più veloce della storia del Manchester United, dopo appena 15 secondi contro il Southampton. Tredici campionati inglesi, due Champions League distanti otto anni l’una dall’altra, una Coppa Intercontinentale, un Mondiale per club. Solo una parte di un palmarès impressionante ma che non ha mai portato a grandi premi individuali.

 

Alessandro Del Piero

 

Siamo nel 1996. E’ nata una stella, del calcio italiano e di quello mondiale: Alessandro Del Piero. In Champions League il ragazzo prodigio fa faville, regalando perle su perle e mandando in visibilio il globo intero. Realizza dei gol pazzeschi, che un giorno verranno appunto rinominati “gol alla Del Piero” e passeranno alla leggenda. Quella Champions il giovane Del Piero la vince. Poi vince anche l’Intercontinentale, segnando il gol decisivo contro il River Plate. La sua candidatura si fa sempre più forte, in molti cominciano a credere che Alex alla fine riuscirà a far suo il prestigioso riconoscimento. O quantomeno ad arrivare sul podio. Invece trionfa a sorpresa Sammer, che in quell’anno fa una stagione da onesto mestierante con il Borussia Dortmund e vince gli Europei con la Germania. Un ottimo difensore, per carità. Ma in molti non credono ai loro occhi. Anche perchè Del Piero finisce quarto. Una delle ingiustizie più clamorose di ogni epoca.

 

Ferenc Puskas

 

Come segnare quattro gol in finale di Champions e non vincere il Pallone d'Oro"

Immaginatevi la scena: il Real Madrid vince la Champions League grazie a 4 gol di Cristiano Ronaldo nella finalissima; però il Pallone d'Oro lo vince Messi. Quante sono le possibilità che il portoghese non si unisca a un gruppo di ribelli per una rappresaglia? Pochissime. È più o meno quello che è successo nel 1960, quando il Real Madrid si portò a casa la Coppa dei Campioni superando l'Eintracht Francoforte per 7-3, grazie a un poker del formidabile Puskas, ma France Football decise di premiare Luis Suarez del Barcellona.

E quelle quattro reti rappresentano solo una minuscola frazione delle 616 messe a segno dall'ungherese in 620 gare ufficiali. Altre tre, per dire, le infilò nella finale di Coppa Campioni del 1962, che tuttavia il Real perse contro il Benfica. Nel 2009, come una sorta di ammissione di colpa postuma, venne istituito il “Ferenc Puskas Award” per premiare il miglior gol dell'anno.

E voi, ricordate qualche altro campione che non ha mai vinto il Pallone d'Oro?